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I I.1. Il genere del “family play” e la sua evoluzione nel teatro americano Se si getta uno sguardo d’insieme alla drammaturgia americana degli ultimi cento anni (vale a dire, al dramma americano tout court, se è vero che “serious American drama began in the summer of 1916”[1]), si è colpiti dall’abbondanza e dalla varietà delle sue espressioni, ma più ancora dalla maniera quasi ossessiva con cui un medesimo tema e una medesima ambientazione si ripresentano nella produzione di artisti ideologicamente ed esteticamente anche molto lontani fra loro. Dai primi lavori di Eugene O’Neill[2] ai successi anni ’50 di Miller e Williams, dagli esperimenti di T.S. Eliot e Djuna Barnes con il dramma in versi ai plays di Lillian Hellman, Lorraine Hansberry, Edward Albee, Neil Simon fino alle autrici e agli autori nostri contemporanei[3], non v’è drammaturgo[4] che non abbia elaborato una sua personale visione della famiglia, e che non abbia sondato - prendiamo a prestito l’espressione da Albee - il “delicate balance”[5], l’equilibrio precario di questa istituzione, mettendola non di rado sotto accusa. Come ha efficacemente riassunto Tom Scanlan: “the family situation is the crucial subject of American drama”, e i drammaturghi americani sono tutti “obsessed with the living-room”[6]: la stanza di soggiorno (ma anche la cucina) della casa famigliare, preferibilmente suburbana e irrimediabilmente claustrofobica, costituisce il set obbligato di una drammaturgia che è “in a fundamental way domestic drama”[7]. La rappresentazione dei conflitti all’interno della famiglia, spesso degeneranti in lotta aperta e in violente rese dei conti, è antica quanto il teatro stesso; su di essa si fonda il modello archetipico della tragedia greca, l’Orestea, e immagini di contrasto famigliare sono frequenti nella tragedia elisabettiana (dalla revenge tragedy di Thomas Kyd a Shakespeare e ai drammaturghi giacobini) e in quella classica francese. È però solo nella prima metà del Settecento che si giunge a una codificazione del genere della domestic tragedy, ad opera dell’inglese George Lillo: nel prologo al dramma The London Merchant del 1731, egli precisò che “se la sublime musa tragica mostrava scene di regali sventure, era tuttavia possibile che la tragedia si occupasse di una vicenda e di sventure private”, legate a “quei valori e quel modo di sentire che nascevano dall’affermazione della classe borghese”[8] e raffigurate realisticamente. Bisognerà attendere sino alla fine del secolo successivo perché il dramma domestico trovi, nell’opera di Henrik Ibsen, una sua forma coerente[9], e in quel caso non si tratterà più di celebrare, bensì di sottoporre a una critica impietosa il volto nascosto del mondo borghese. Dai “tasteless parlors”[10] di Ibsen e Strindberg al salotto dei Tyrone in Long Day’s Journey into Night o a quello infuocato di George e Martha in Who’s Afraid of Virginia Woolf? il percorso è breve e diretto. C’è però una differenza fondamentale tra l’immagine che della famiglia middle-class dà il dramma americano e quella fornita dai suoi modelli europei: si tratta della quasi totale assenza, nel primo, di un contesto sociale, in cui la rappresentazione della vita famigliare possa essere inserita e che aiuti a ridimensionarne i contrasti, relativizzandoli. Mentre la drammaturgia europea mostra in genere la famiglia come parte di un tessuto collettivo complesso, spesso affollato da parenti, amici e semplici conoscenti che si recano in visita “di cortesia” (particolarmente nelle pièces di Cechov), nei drammi americani i legami che la famiglia intrattiene col mondo esterno sono tenui, quando non del tutto inesistenti, e “the family becomes the whole world rather than one aspect of it”[11]. Le case dei Tyrone (Long Day’s Journey), dei Wingfield (The Glass Menagerie) o dei Churches (Painting Churches), al pari di quelle di tante situation comedies televisive[12], sembrano esistere in un vuoto sociale. In esse, famiglie di tipo “nucleare”[13] formano - nelle parole di John Henry Raleigh - “a macro-microcosm that blots out the universe”[14]: è comprensibile che, eliminato o quasi lo spazio della vita pubblica, la sfera del privato sia sovraccaricata da un peso enorme di aspettative e tensioni, che sfociano con facilità in crisi violente. Per questo ed altri motivi, il teatro statunitense pare aver fatto propria la lezione di Strindberg, piuttosto che di Ibsen o Cechov[15]: lo svedese aveva infatti creato, nel suo dramma Dödsdansen del 1900, la situazione paradigmatica dell’isolamento famigliare che si muta in inferno e in battaglia psicologica. Da quella pièce e dal suo clima di soffocante intimità discende gran parte del dramma domestico americano, e in particolare l’opera di O’Neill, che di Strindberg si dichiarò più volte discepolo[16]. Se la predilezione dei drammaturghi americani per la forma realistica del “family play” si può agevolmente ricondurre alla tradizione europea, resta da motivare una tale fioritura negli Stati Uniti di questo genere drammatico, che nel continente americano trovò un terreno di sviluppo estremamente favorevole. W. D. Howells fu tra i primi a suggerire una possibile spiegazione del fenomeno. Già nel 1904, nell’ambito di una riflessione sul “provincialismo” dilagante nel teatro americano di quegli anni, egli notava:
L’analisi di Howells si inserisce polemicamente nel dibattito sulla cosiddetta “povertà dei materiali”, che aveva appassionato gli intellettuali americani da Washington Irving in poi: lungo tutto l’Ottocento, vari autori statunitensi avevano lamentato la scarsezza di stimoli socioculturali dell’America del tempo, cosa che rendeva estremamente difficile produrre opere letterarie che trattassero in maniera realistica dei costumi di quel paese. Resta celebre, ad esempio, l’affermazione di J. F. Cooper (in Notions of the Americans, del 1828), secondo il quale:
come pure lo sfogo di Hawthorne, che nella prefazione a The Marble Faun, il suo ultimo romance pubblicato nel 1860, definiva l’America un paese in cui “there is no shadow, no antiquity, no mystery, no picturesque and gloomy wrong, nor anything but a commonplace prosperity in broad and simple daylight”[19]. È la tesi di un’America “senza società”[20], che spinse uno dei suoi più grandi romanzieri, Henry James, a esiliarsi volontariamente in Europa poiché era là che si trovavano “manners, customs, usages, habits, forms”[21]. In mancanza di costumi “pittoreschi” e di più articolate forme sociali su cui esercitare la propria osservazione, i drammaturghi americani individuarono sin dall’inizio nella cellula famigliare una società “in piccolo” - un little commowealth come già la consideravano i primi coloni[22] - e la elessero quale milieu ideale in cui cogliere gli umori variabili della nazione. I primi “full-length plays” di O’Neill - in particolare Beyond the Horizon, scritto nel 1920 e Desire Under the Elms del 1924, entrambi ambientati in fattorie a conduzione famigliare del New England - inaugurarono la moderna drammaturgia americana nel segno del “family play”, che resterà il modulo preferito di autori tragici (come T.S. Eliot e il suo The Family Reunion del 1939), comici (Philip Barry e S.N. Behrman con le loro sophisticated comedies), e anche di drammaturghi politicamente impegnati come Lillian Hellman e Clifford Odets, il quale realizzò la sua opera più persuasiva con Awake and Sing![23], ritratto di una famiglia ebrea del Bronx negli anni della Depressione. Le famiglie rappresentate in questi drammi rispecchiano un’America frammentata in mille comunità etniche, indipendenti le une dalle altre eppure unite da un comune “cult of domesticity”[24]: gli Irish-American (O’Neill), gli ebrei e gli italiani (Arthur Miller), la comunità afroamericana in A Raisin in the Sun di Lorraine Hansberry, quella Asian-American nei lavori di David Henry Hwang, gli uomini e le donne del Sud nelle pièces di Tennessee Williams e Lillian Hellman, infine la borghesia wasp in un’infinità di varianti (dalle anime vacillanti fra tragico e grottesco di Eliot e Barnes, agli abitanti della small town di Wilder, alla suburbia di Albee e Tina Howe, alla Hollywood delirante di David Rabe). Quella che, nel 1860, era sembrata a Hawthorne “banale prosperità” nascondeva in realtà contrasti violenti, destinati ad acuirsi nei decenni successivi, e precisamente: i temi drammatici dell’immigrazione e assimilazione dei nuovi arrivati, la preoccupazione per il successo materiale, la corruzione degli ideali di libertà e innocenza che avevano qualificato l’avventura americana fin dallo sbarco dei Padri Pellegrini, l’ansia legata al lento e difficile processo di creazione di un’identità personale e nazionale. In breve, la storia sociale e culturale dell’America del Novecento. Tutti questi temi rientrano tangenzialmente nei drammi che abbiamo menzionato, ma non ne costituiscono il fulcro: a differenza della narrativa della prima metà del secolo, che fa di essi il proprio argomento centrale, la drammaturgia statunitense relega in genere la problematica sociale sullo sfondo (quando non la rimuove del tutto), distinguendo nettamente tra la sfera privata, di cui si occupa, e quella pubblica, che fa parte dei drammi solo come un’eco lontana[25]. Questo non vuol dire che i “family plays” non siano portatori di significati e di questioni sociali: in essi si può leggere in filigrana una quantità di “discorsi” socio-culturali, che hanno contribuito a definire l’identità americana (la storia di James Tyrone in Journey, ad esempio, riassume alla perfezione l’iter dell’immigrato di prima generazione che, giunto in America del tutto privo di mezzi, ha colto al volo le enormi possibilità del paese e si è costruito da sé il proprio successo, pagando poi l’inevitabile prezzo in termini di alienazione). Di fatto, tuttavia, il teatro americano mette in primo piano situazioni domestiche universali, studi psicologici piuttosto che sociali, che rappresentano conflitti facilmente riconoscibili e familiari a qualsiasi pubblico, poiché radicati nell’inconscio. Il quadro tipico che i drammaturghi americani ripropongono all’infinito è costituito da gruppi famigliari variamente assortiti (ma il quartetto tradizionale formato da padre, madre e due figli reali o putativi[26] rimane dominante), intrappolati in interni piccolo e medio borghesi[27], dediti a uno smodato consumo di bevande alcoliche (“We drink a great deal in this country”[28], ammette George in Who’s Afraid of Virginia Woolf?) e impegnati in scontri ad alto voltaggio verbale. Quella ritratta - ha rilevato Arthur Miller - è una “timeless family”, immersa in “a rhythm of existence beyond the disturbance of social wrecks”[29]; prima e più che essere un’istituzione sociale, la famiglia messa in scena dal dramma americano è un luogo “mitico”[30]: campo di battaglia psichico, destino individuale e collettivo, dimensione dello spirito che nel più dei casi si percepisce irrimediabilmente perduta ma che non si può fare a meno di continuare a sognare (un po’ come la frontiera di cui parla F.J.Turner), “the privileged, multilayered, mysterious space where one’s true self is located, hidden or buried”[31]. La cerchia famigliare, come ci ricorda Nadia Fusini, è “uncanny, unheimlich; il regno per antonomasia del perturbante”[32], dato che - a quanto sostiene Freud - è proprio ciò che è più famigliare a scatenare in noi il terrore più intenso[33]. È questo insieme proteiforme di aspetti che gli autori drammatici americani, con modalità, stili e risultati differenti, hanno affrontato nei loro “family plays”. [1] “Una seria drammaturgia americana ebbe inizio [solo] nell’estate del 1916”: quando i Provincetown Players misero in scena - al Wharf Theatre sulla spiaggia di Provincetown, in Massachussetts - il primo atto unico di Eugene O’Neill, Bound East for Cardiff. Così sostiene Louis Sheaffer, e continua con la celebre affermazione: “Before O’Neill, the U.S. had theatre; after O’Neill, it had drama” (Prima di O’Neill gli Stati Uniti avevano una produzione teatrale; dopo O’Neill ebbero una drammaturgia). Citato in: Pfister, J., Staging Depth, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1995, p. 61.
[2] Il quale, secondo Brooks Atkinson, “turned Broadway into a theatre for adults” (trasformò Broadway in un teatro per adulti). Ibid., p. 219.
[3] Volendo citarne alcuni: Sam Shepard (senz’altro il più noto al pubblico internazionale, grazie anche alle sue numerose interpretazioni cinematografiche), John Guare, David Rabe, Tina Howe, Marsha Norman, Albert Innaurato. Per una rassegna accurata della drammaturgia americana contemporanea si veda: Cohn, R., Nuovo Teatro Americano 1960-1990, (a cura di R. di Giammarco), Roma, Gremese, 1992.
[4] David Mamet è probabilmente l’unica eccezione rilevante nel panorama dei drammaturghi contemporanei, nonostante egli abbia dichiarato che “la Famiglia Distrutta [è] la principale istituzione americana”. Citato in: Cohn, R., op. cit., p. 109. Se Mamet non si è (ancora) mai espresso con un vero e proprio “family play”, egli ha però realizzato - in Reunion del 1977 - un intenso studio sul rapporto tra un padre di mezz’età e sua figlia.
[5] A Delicate Balance è il titolo del dramma che valse ad Albee il Premio Pulitzer nel 1967.
[6] “la situazione famigliare è l’argomento cruciale della drammaturgia americana”; “ossessionati dalla stanza di soggiorno”. Scanlan, T., Family, Drama and American Dreams, Westport, Ct, 1978, p. 3.
[7] “in maniera precipua dramma domestico”. Ibid., p. 5. Con grande intuito, W.D.Howells aveva colto questa tendenza già nel 1904, quando scriveva: “It [American drama, n.d.t.] scarcely transcends in its suggestion the four walls of the house where the action passes, and it reaches the spectator only through the domestic atmosphere which so thoroughly involves American life”(A malapena va oltre, nella sua ispirazione, le quattro mura della casa in cui l’azione si svolge, e raggiunge lo spettatore unicamente attraverso l’atmosfera domestica, che assorbe così a fondo la vita americana). Citato in: Downer, A.S. (ed.), American Drama and Its Critics, Chicago & London, The University of Chicago Press, 1965, p. 11.
[8] Citato in: Bertinetti, P., Storia del teatro inglese dalla Restaurazione all’Ottocento, 1660-1895, Torino, Einaudi, 1997, pp. 156;158.
[9] Il dramma domestico trova anche espressione nel genere della comedy of manners inglese (G.B.Shaw, O.Wilde), che non ebbe però lo stesso impatto sul teatro statunitense della drammaturgia scandinava. Relativamente influenti furono invece le pièces bien faites del teatro da boulevard francese (Scribe, Sardou) e le drawing-room comedies di T.W.Robertson, che ispirarono un certa drammaturgia realistica di fine Ottocento (E.Harrigan, J.A.Herne, e W.D.Howells). In proposito vedi: Perosa, S., Storia del teatro americano, Milano, Bompiani, 1982, pp. 55-67.
[10] “salotto privo di gusto”. L’espressione, coniata da Henry James, è riportata in: Scanlan, T., op. cit., p. 6.
[11] “la famiglia diventa l’intero mondo [rappresentato], piuttosto che un singolo aspetto di esso”. Ibid., p. 6. Se è vero che nei drammi americani compaiono spesso i neighbours (i vicini di casa), la loro presenza all’interno del circolo famigliare è sentita di frequente come un’intrusione ed è fonte di crisi (massimamente in A Delicate Balance di Albee).
[12] Per una trattazione delle quali si veda: Feuer, J., “Genre Study and Television” in: Allen, R.C., Channels of Discourse, Reassembled, London, Routledge, 1992, pp. 138-160, e il capitolo “La situation comedy e i suoi modelli. Realtà e finzione” in: Cartosio, B., Anni inquieti, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 221-243.
[13] Cioè ristrette al nucleo famigliare fondamentale, formato da: padre, madre e uno o più figli. Sono il modulo famigliare caratteristico della società industrializzata.
[14] “un macro-microcosmo che cancella l’universo”. Citato in Pfister, J., op. cit., p. 26.
[15] È la tesi sostenuta, fra altri, da Tom Scanlan, che afferma: “Of all European moderns, it is Strindberg [...] who is closest in spirit to American drama. Plays such as The Dance of Death show obsessed, warring families of a type we now know well” (Di tutti gli europei moderni, Strindberg è il più spiritualmente simile al dramma americano. Drammi quali Danza di morte raffigurano famiglie ossessionate e in lotta, di un tipo che noi ora conosciamo bene). Scanlan, T., op. cit., p. 6.
[16] Per una discussione dell’influsso di Strindberg su O’Neill si rimanda a: II.3, pp. 75 e segg.
[17] “I drammi americani e quelli inglesi in generale sembrano dividersi in due tipologie, che si accordano perfettamente alla loro nazionalità: la tipologia domestica e quella sociale. I drammi inglesi riguardano l’uomo nel suo essere membro di una società; i drammi americani si riferiscono all’uomo nel suo essere membro di una famiglia; da noi [nella nostra drammaturgia, n.d.t.] l’interesse umano primario è la famiglia. Questo perché, nel senso stretto che gli inglesi attribuiscono al termine, noi non abbiamo alcuna società, e se da noi la vita domestica è tanto importante è perché le nostre origini sono ancora quasi del tutto rustiche, e nei nostri concetti di felicità siamo eccessivamente alla buona”. Howells,W.D., “Some New American Plays”, in: Downer, A.S., op. cit., pp.10-11.
[18] “È difficile trovare qui [negli Stati Uniti, n.d.t.] un giacimento [sottinteso: di temi e soggetti letterari, n.d.t.] che contribuisca alla ricchezza dell’autore tanto quanto quelli europei. Non ci sono annali per lo storico, né follie (tranne le più volgari e banali) per l’autore di satire, né costumi per il drammaturgo [corsivo mio, n.d.t.], né oscure narrazioni per lo scrittore di romanzi fantastici”. Citato in: Ruland, R.; Bradbury, M., From Puritanism to Postmodernism. A History of American Literature, London, Penguin Books, 1992, p. 96.
[19] “non vi sono ombre, antichità, misteri, pittoresche e lugubri ingiustizie, né altro tranne una banale prosperità sotto la chiara e schietta luce del sole”. Ibid., p. 155.
[20] Sostenere che l’America del tempo fosse priva di società è in effetti arbitrario (essa aveva già sviluppato forme sociali autonome, solo meno strutturate e sofisticate di quelle europee). Sarebbe allora meglio parlare - come fa James - di mancanza di “civilization”, una caratteristica propria di ogni società giovane e in movimento quale furono gli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento. Del resto, quella stessa “povertà dei materiali” che Cooper, Hawthorne e James consideravano un ostacolo era vista da Howells come una benedizione poiché “it was the American want of such things that made the opportunity of its writers so interesting” (era la mancanza in America di tali cose che rendeva le opportunità per i suoi autori così interessanti). Ibid., p. 213.
[21] “maniere, costumi, usanze, abitudini, formalità”. Ibid., p. 213.
[22] Vedi : Pfister, J., op. cit., p. 23.
[23] La maggior parte della critica è concorde nel ritenere Awake and Sing! (1935) nettamente superiore al resto della produzione di Odets, incluso il più famoso Waiting for Lefty, dello stesso anno. Vedi: Perosa, S., op. cit., pp. 127-28 e Freedman, M., American Drama in Social Context, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1971, pp. 7-8.
[24] “culto della sfera privata”. Pfister, J., op. cit., p. 23. La sociologa Elaine Tyler May sostiene che in America la vita privata sia “a national obsession”, ibid., p. 26; Tom Scanlan parla di “general familialism of our culture”, Scanlan, T., op. cit., p. 4.
[25] Nel caso di Long Day’s Journey into Night il riferimento all’eco è letterale. Come osserva T. Dubost: “The only reminder of its [the outside world’s, n.d.t.] existence is a medley of sounds coming in from outside, notably those of the foghorn and of the ships’ bells. This acoustic landscape, in the form of an echo, does not act as a bridge linking two worlds - on the contrary it heightens the impression of the group’s isolation” (L’unico segno della sua esistenza è un insieme di suoni provenienti dall’esterno, in particolare quelli della sirena della nebbia e delle campanelle delle navi. Questo paesaggio acustico, sotto forma di eco, non fa da ponte tra i due mondi [quello domestico, privato e quello esterno, pubblico, n.d.t.] - al contrario, esso intensifica il senso di isolamento del gruppo). Dubost, T., Struggle, Defeat or Rebirth: Eugene O’Neill’s Vision of Humanity, Jefferson, McFarland, 1997, p. 25.
[26] Come nel caso di Nick e Honey, la coppia di ospiti cannibalizzata da George e Martha in Who’s Afraid of Virginia Woolf? di Albee.
[27] Anche se non manca qualche sortita nel mondo contadino (i drammi “rurali” di O’Neill) e alcuni validi ritratti della working class (A View From the Bridge di Miller; Curse of the Starving Class, Buried Child e A Lie of the Mind di Shepard). In ogni caso - come nota T.E.Porter - i protagonisti sono sovente confinati in un ambiente chiuso e “feel at the mercy of [...] delimited space; confinement to this dimension does not allow any room for release” (si sentono alla mercé di uno spazio delimitato; la dimensione in cui sono confinati non consente loro la possibilità di liberarsi). Porter, T.E., Myth and Modern American Drama, Detroit, Wayne State University Press, 1969, p.254.
[28] “Beviamo parecchio in questo paese”. Albee, E., Who’s Afraid of Virginia Woolf?, New York, Atheneum, 1963, p.106.
[29] “Una famiglia senza tempo”; “un ritmo di vita al di là del tumulto degli stravolgimen-ti sociali”. Riportato in: Welland, D., Arthur Miller, London, Oliver and Boyd, 1961, p. 70.
[30] L’aggettivo è usato da Richard Gilman nella prefazione a: Shepard, S., Plays, Vol. 2, London, Faber & Faber, 1997, p. xi.
[31] “lo spazio privilegiato, misterioso e formato da più strati, in cui è localizzato, nascosto o seppellito il proprio io autentico”. Così definisce la famiglia J. Pfister, e aggiunge: “the family is [...] understood principally as the arena of raw human nature and of psychological revelations” (la famiglia è intesa principalmente come l’arena della natura umana allo stato grezzo e delle rivelazioni psicologiche). Pfister, J., op. cit., p. 47. Sam Shepard esprime un’analoga visione mitica della famiglia quando, in Curse of the Starving Class (1976), fa dire a Weston: “I felt like [...] a family wasn’t just a social thing. It was an animal thing. It was a reason of nature that we were all together under the same roof” (Ebbi l’impressione che una famiglia non era semplicemente un fatto sociale. Era un fatto animale. Era per una legge naturale che noi stavamo tutti insieme sotto lo stesso tetto). Shepard, S., op. cit., p. 186.
[32] Fusini, N., “C’era una volta un matrimonio ma fu una catastrofe”, La Repubblica, 26 novembre 1999, p. 45.
[33] “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare [corsivo mio, n.d.t.]”. Freud, S., Il perturbante, Roma, Theoria, 1984, p. 14. |
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