Capitolo
I I.2. Nevrosi “da camera”: le famiglie malate di Eugene O’Neill e Sam Shepard Se quasi tutti i drammaturghi americani hanno esplorato luci e ombre del paesaggio famigliare (stando a Leslie Wade, “writing domestic drama has emerged as a requisite exercise for our country’s playwrights”[1]), alcuni di essi sono ritornati con particolare insistenza a tematiche e ambientazioni domestiche nel corso della loro produzione, spesso realizzando i loro capolavori nel genere del dramma famigliare. Ci riferiamo, in particolare[2], all’opera di Eugene O’Neill, disseminata di tormentati ritratti domestici[3] culminanti in Long Day’s Journey into Night, e alla produzione di Sam Shepard, il quale raggiunse un ampio successo di critica e pubblico nei tardi anni Settanta con alcuni intensi quadri di vita famigliare[4]. I due autori, che cronologicamente si collocano agli estremi della parabola del teatro americano del Novecento, sono sovente messi a confronto per la grande affinità di temi, personaggi e stile (un realismo spesso distorto e punteggiato da inserti allucinati, specie nel caso di Shepard), e i loro lavori ben si prestano a un’analisi generale delle dinamiche all’opera nel “family play”. Ci serviremo dunque di Long Day’s Journey into Night (1941) di O’Neill e di Curse of the Starving Class (1976) di Shepard come esempi rappresentativi, all’interno della drammaturgia domestica statunitense, di quello che Tom Scanlan ha definito “the family dilemma”[5], ossia il coacervo di sentimenti e desideri contrastanti nei confronti della cellula famigliare, cui gli artisti americani hanno dato espressione. Sia O’Neill che Shepard presentano nelle loro pièces uno stesso sistema[6] famigliare claustrofobico, chiuso al mondo esterno, caratterizzato da molteplici “disfunzioni” (alcolismo, abuso di droga, atteggiamenti criminali, avidità, incomunicabilità, per citarne solo alcune) e attraversato da ininterrotte potenzialità di violenza. La vita in comune comporta un forte senso di oppressione fisica e psicologica: i personaggi manifestano spesso la frustrazione di sentirsi spiati e guardati a vista[7]; tuttavia, lo stare insieme sotto lo stesso tetto è avvertito anche come “a reason of nature”[8], e l’affetto che lega i membri della famiglia è altrettanto profondo e genuino dell’astio e delle mutue recriminazioni[9]. Senz’altro, ciò di cui né i Tyrone né i Tate possono rimproverarsi è di essere indifferenti; l’intensità delle loro dispute dà la misura di quanto la situazione famigliare stia loro a cuore, ed essi potrebbero esclamare, come fa non senza sarcasmo la protagonista di A Delicate Balance di Albee:
Il conflitto è prima di tutto generazionale: i figli rimproverano ai padri (e alle madri) la loro inadeguatezza affettiva e l’incapacità di costituire un modello positivo; a loro volta, i genitori danno la colpa dei loro fallimenti al destino, inteso - letteralmente - come una maledizione ciclica. In Curse la madre Ella descrive così l’eredità famigliare, che scorre nel sangue come un’impalpabile malattia contagiosa:
E sua figlia Emma, riferendosi all’alcolismo e al carattere irascibile del padre, afferma: “[It] runs in the family. His father was just like him. And his father before him. Wesley is just like Pop, too. [...] Something in the blood. Hereditary”[12]. Quando, nel Terzo e ultimo Atto, il figlio Wesley indossa giaccone e berretto del padre Weston (Wesley/Weston, Emma/Ella: gli stessi nomi fanno sì che i personaggi si riflettano l’uno nell’altro come in un inquietante gioco di specchi), le parole di Emma si materializzano sulla scena e assistiamo a un allucinato travaso d’identità: Wesley diventa suo padre, tanto che la madre lo chiamerà d’ora in poi Weston. Per i Tyrone di Journey - di cui si dirà diffusamente nel Capitolo II - la maledizione assume i contorni più concreti della dipendenza della madre Mary dalla morfina (“a curse she can’t escape”[13]), ma indica anche il fatale riproporsi delle medesime situazioni e dei medesimi errori nell’arena famigliare, nonché l’impossibilità, per i suoi componenti, di rompere il cerchio invisibile che li imprigiona e che impedisce loro una sana affermazione dei propri desideri individuali. A essere oggetto di biasimo non è tanto la famiglia in sé e per sé, quanto piuttosto il fatto che, invece di contribuire naturalmente al benessere e allo sviluppo dei singoli individui che ne fanno parte, la struttura famigliare costituisce spesso il primo e maggiore ostacolo che essi devono affrontare per sviluppare una personalità autonoma e responsabile[14]. Ovviamente, il discorso riguarda soprattutto i figli, i quali - vittime di una situazione non creata da loro - ingaggiano battaglie sovente disperate per liberarsi dalla morsa della sorte famigliare. Scrivendo a proposito di un’altra celebre famiglia o’neilliana, i Mannon di Mourning Becomes Electra, Joel Pfister ha osservato: “the way to escape the family-as-fate, apparently, is simply to leave it”[15]; sfortunatamente per loro, però, nessuno dei personaggi di O’Neill è in grado di mettere in atto questo precetto con serietà. Se se ne vanno dalla casa famigliare, è per tornarvi, standoci poi ancora peggio: Lavinia Mannon, dopo l’illusoria felicità di un viaggio nei Mari del Sud, finisce col fare della propria casa una tomba; per Andrew Mayo in Beyond the Horizon il ritorno a casa equivale a un’ennesima constatazione della propria sconfitta umana e sentimentale; Edmund e Jamie Tyrone, infine, si ostinano a fare ritorno al desolato cottage estivo forse perché, nonostante tutto, “it’s the only home we’ve had”[16]. Da parte sua, Shepard non è più ottimista: la fuga finale di Emma in Curse si risolve in tragedia (salterà in aria nell’auto piena di esplosivo, che due sicari hanno destinato a suo padre). In definitiva, alla domanda: “How am I ever going to get out of here?”, l’unica risposta possibile sembra essere “You’re not going to get out of here”[17]. La casa famigliare, che - come rammenta Harry Levin a proposito delle magioni descritte da Poe e Hawthorne - “is, ambiguously, both the family and the family mansion, the stately gloom of the building itself presaging the decadence of its inhabitants”[18], ha tentacoli lunghi e sinuosi, dalla cui stretta è difficile svincolarsi. [1] “La composizione di drammi domestici è emersa come una prova indispensabile per i drammaturghi del nostro paese”. Wade, L., Sam Shepard and the American Theatre, Westport, Ct, Praeger, 1997, p. 94. Wade suggerisce che il “family play” sia diventato un genere “classico”, con cui ogni drammaturgo che si rispetti sente il dovere di misurarsi.
[2] Dovendo necessariamente circoscrivere l’analisi, mi limito qui a un esame dell’opera di O’Neill e Shepard, ben consapevole che essi non esauriscono il panorama della drammaturgia “famigliare” americana.
[3] A cominciare da Beyond the Horizon (1920), il contesto domestico è uno dei preferiti da O’Neill (insieme alle due piccole comunità della nave e della taverna), in cui situare l’incontro/scontro tra i suoi personaggi. Altri celebri drammi “di famiglia” sono: Desire Under the Elms (1924), la trilogia Mourning Becomes Electra (1931) e la commedia Ah, Wilderness! (1933), senza dimenticare il ciclo incompiuto di drammi storici dal titolo Tales of Possessors Self-Dispossessed (1936-). Per una trattazione diffusa del “canone” di O’Neill si rimanda a II.1., pp. 37 e segg.
[4] Dopo l’inizio nei teatri Off-Off Broadway con testi che seguivano lo spirito dell’avanguardia newyorkese degli anni Sessanta, Shepard - nato Steve Rogers nel 1943 - passò a un tipo di drammaturgia più tradizionale (il genere del “family play”, appunto, sperimentato nella cosiddetta “trilogia del West” che comprende: Curse of the Starving Class del 1976, Buried Child del 1978 e True West del 1980); il successo di questi drammi lo proiettò nell’Olimpo dei “Grandi Drammaturghi Americani”, regalandogli un premio Pulitzer (per Buried Child, nel 1979). Conflitti famigliari sono presenti anche nei successivi drammi di Shepard: Fool for Love (1983) e A Lie of the Mind (1985). In proposito vedi: Wade, L., op. cit., pp. 163-171.
[5] “il dilemma famigliare”. Scanlan, T., op. cit., pp. 83 e segg.
[6] Si tratta in entrambi i casi di quartetti famigliari: padre, madre e due figli maschi in Journey, ambientato nel New England; padre, madre, fratello e sorella in Curse, che si svolge in un imprecisato paesaggio desertico dell’Ovest americano, non lontano dal confine col Messico. Per comodità, utilizziamo i titoli abbreviati dei drammi.
[7] “Why are you watching me all the time? You’re like having an espionage spy around” (Perché stai lì a guardarmi tutto il tempo? È come avere intorno una spia): così esclama, in Curse, il padre Weston al figlio che lo osserva. Shepard, S., op. cit., p. 168. Mary Tyrone rimprovera il marito con parole analoghe in Journey: “You really must not watch me all the time, James. [...]It makes me self-conscious” (Davvero, non devi stare a guardarmi tutto il tempo, James. Mi rende nervosa). O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, London, Jonathan Cape, 1956, p. 14. L’incredibile somiglianza di queste ed altre battute fa pensare a un influsso diretto di Journey su Shepard, che del resto indicò ripetutamente la pièce come “the truly great American play” (l’autentico grande dramma americano). Citato in: Porter, L.R., “Modern and Postmodern Wastelands: Long Day’s Journey into Night and Shepard’s Buried Child” in: The Eugene O’Neill Review, 17:12, 1993, p. 108.
[8] “una legge naturale”. Shepard, S., op. cit., p. 186.
[9] Jamie Tyrone compendia eloquentemente il dilemma emotivo della famiglia quando dice al fratello: “don’t get wrong idea, Kid. I love you more than I hate you” (Non farti un’idea sbagliata, ragazzo. Il mio amore per te è più forte dell’odio). O’Neill, E., op. cit., p. 146. Le situazioni descritte nei drammi illustrano in modo significativo la regola secondo la quale: “the family that preys together stays together” (la famiglia che si tormenta resta unita). Manocchio, T. & Petitt, W., Families Under Stress: a Psychological Interpretation. London, Routledge, 1975, p. 118.
[10] “Ci vogliamo tutti bene; certo che sì. [Con una sorta di ghigno] Sì, fin negli abissi della nostra autocommiserazione e della nostra avidità. Cos’altro se non amore?”. Albee, E., A Delicate Balance, London, Penguin Books, 1966, p. 34.
[11] “Sai cos’è questa? È una maledizione. Riesco a sentirla. Non si può vedere ma c’è. C’è sempre. Ci investe come la notte. Arriva anche quando fai di tutto per non farla venire. Anche quando cerchi di cambiarla. E va indietro. In profondità. Ordisce le sue trame nel ventre [materno, n.d.t.]. Ancora prima di allora. Nell’aria. Ne siamo circondati. E avanza pure. Siamo noi a propagarla. La trasmettiamo. La ereditiamo e la trasmettiamo, e poi la trasmettiamo ancora”. Shepard, S., op. cit., pp. 173-174.
[12] “È una cosa di famiglia. Suo padre era esattamente come lui. E prima di lui, il padre del padre. Anche Wesley è uguale a Papà. Qualcosa nel sangue. Ereditario”. Ibid., p. 152.
[13] “Una maledizione [corsivo mio, n.d.t.] alla quale non riesce a sfuggire”. O’Neill, E., op. cit., p. 33.
[14] Cioè per diventare adulti. Il fatto che tanti protagonisti del teatro e della narrativa americani non sognino che di districarsi dalla ragnatela della famiglia suggerisce una riflessione sul carattere per molti versi adolescenziale (e ribelle) dell’immaginazione letteraria statunitense. L’individuo in fuga dalla “prigione” famigliare è una costante del romanzo americano, da Huckleberry Finn ai testi di Faulkner (in particolare The Sound and the Fury) e J.D.Salinger, a Rabbit Run di John Updike: questo desiderio di “light out” (per usare le parole di Huck) è stato spiegato da Leslie Fiedler - in Love and Death in the American Novel - come risposta del singolo alla minaccia, sempre in agguato nell’alveo famigliare, dell’incesto. Resta il fatto che una semplice fuga non risolve alcunchè: come ben sa Lavinia Mannon, non basta allontanarsi geograficamente per scacciare i propri demoni famigliari (reali e/o simbolici). Sono debitrice per queste considerazioni al bel saggio di Gianni Celati “Mitologie romanzesche americane”, contenuto in: La Polla, F., Struttura e mito nella narrativa americana del ‘900, Venezia, Marsilio, 1974, pp. 145-165.
[15] “A prima vista, la soluzione per sfuggire alla famiglia-come-destino sta semplicemente nel lasciarla”. Pfister, J., op. cit., p. 42.
[16] “È l’unica casa che abbiamo [mai] avuto”. O’Neill, E., op. cit., p. 38.
[17] “Com’è che uscirò mai da qui?” – “Non ci uscirai”. Lo scambio di battute ha luogo tra Emma e la madre nell’Atto Primo di Curse. Shepard, S., op. cit., p. 147. La metafora forse più originale per descrivere il senso di reclusione che angoscia i personaggi dei “family plays” è stata trovata da Edward Albee, che ha assimilato il claustrofobico milieu domestico a sabbie mobili: “there’s quicksand here, and you’ll be dragged down” (qui ci sono le sabbie mobili, e ne sarai inghiottito). Albee, E., Who’s Afraid..?, p. 115.
[18] “è, misteriosamente, sia la famiglia che la dimora famigliare, [dove] la solenne malinconia dell’edificio preannuncia la decadenza dei suoi abitanti”. Levin, H., The Power of Blackness, New York, Vintage Books, 1960, p. 159. |
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