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I I.3. Il declino di un sogno non solo americano: la crisi della famiglia come aspetto di una società in crisi Sebbene - come si è detto[1] - il dramma domestico americano generalmente non operi una critica sociale diretta (al modo delle pièces di Brecht, per esempio), nondimeno molti “family plays” sottintendono una valutazione della società statunitense e della patologia che la contraddistingue. Senza smentire il carattere segnatamente privato della gran parte dei drammi famigliari, Joel Pfister ha sottolineato che:
Anche Thierry Dubost, argomentando a proposito delle ultime opere di O’Neill, si è detto convinto che:
Già Sigmund Freud, in occasione della sua visita americana del 1909, aveva diagnosticato che gli Stati Uniti soffrivano di “Dollaria”, un malanno che si potrebbe appropriatamente descrivere come “the sickness of an acquisitive society”[4]. Eugene O’Neill condivideva il giudizio freudiano e, in una intervista del 1946, si espresse in prima persona sul proverbiale declino dell’American Dream, che secondo il drammaturgo si era ormai ridotto a bassa pulsione materialistica:
In un momento in cui l’America era al massimo della sua prosperità (la Seconda Guerra Mondiale, appena conclusasi, ne aveva decretato il trionfo e aveva mostrato al mondo intero l’enorme potenza e competitività del suo sistema economico-industriale), O’Neill andava controcorrente e dichiarava:
Il versetto biblico costituisce il nucleo tematico attorno al quale doveva svilupparsi il ciclo di undici drammi storici, che O’Neill non completò mai e che avrebbe dovuto tracciare “the psychological history of a family against the background of the drive toward material progress and the spiritual degeneration of the American people”[7]. Il tema dell’avidità[8] e della degenerazione morale, che essa provoca nel singolo individuo e nel gruppo famigliare, preoccupò O’Neill lungo tutta la sua carriera: esso ritorna come un leitmotif dai primi “sea plays” (è, ad esempio, l’argomento di Ile, Where the Cross is Made e Gold), ai drammi sperimentali degli anni Venti (The Great God Brown, Marco Millions), fino alle pièces autobiografiche della maturità (Journey, in particolare). In tutte queste opere è espressa un’aspra critica al culto del successo e dell’arricchimento fini a se stessi, che hanno avvelenato l’America dando origine a “neurotic energy, rather than the uncomplicated self-assurance of Horatio Alger”[9]. La convinzione - profondamente radicata, come si sa, nella mentalità puritana - che accumulare ricchezze materiali costituisca una prova infallibile di merito individuale ha alimentato, negli Stati Uniti prima e più che in ogni altro paese del mondo, lo sviluppo di una cultura e di una società capitalistiche, in cui un individualismo feroce e la legge del consumo ad ogni costo costituiscono i valori essenziali. Molti “family plays” mettono in scena[10] le conseguenze tragiche di questa mentalità (che Francis Scott Fitzgerald aveva mirabilmente immortalato in The Great Gatsby) sulla famiglia mononucleare, essa stessa un prodotto emblematico dell’economia capitalistica e della moderna società industrializzata. Vittime illustri dell’etica americana del successo sono Willy Loman e James Tyrone, i quali danno entrambi corpo alle parole del Vangelo citate da O’Neill: essi hanno rinunciato alla propria anima per inseguire la chimera dello status sociale, e in fin dei conti non ci hanno guadagnato. Tyrone, in particolare, ha detto addio al sogno di una carriera attoriale d’alto livello - per la quale aveva tutte le doti - e ha venduto il proprio talento alla facile notorietà del teatro commerciale, al fine di potersi atteggiare a grande proprietario terriero (col solo risultato di essere preso in giro dai figli e biasimato dalla moglie)[11]. L’ossessione per il “real estate”, quella proprietà che Hawthorne aveva definito in un suo racconto “the broad foundation on which nearly all the guilt of this world rests”[12], consuma Tyrone con effetti spesso tragicomici ed è alla base dei violenti conflitti che lacerano la famiglia, impedendole una sana integrazione con la comunità in cui è inserita. È stato giustamente evidenziato che:
Il mito di un benessere ingordo, che è stato e continua ad essere l’ideologia dominante delle democrazie occidentali, ha come (cospicua) metà oscura un cocente senso di solitudine e alienazione nei rapporti più intimi, che Alexis de Tocqueville aveva identificato come il “paradosso della democrazia”[14] e che il dramma domestico si propone di investigare. Se è vero che questo paradosso è ormai un fenomeno diffuso in ogni società (post)industriale, resta il fatto che “the American family experience seems to be a more extreme example - a purer case, so to speak - of the social forces at work in the western world”[15], ad esempio per quanto riguarda lo scompaginarsi dei ruoli famigliari tradizionali e l’erosione dell’autorità patriarcale. Accade sovente che questioni di portata universale risultino, se inserite nel contesto americano: “accelerated, amplified, and projected on a wide screen”[16], ed è questa una delle componenti di maggior fascino nello studio dell’America e delle sue espressioni culturali. [1] Vedi I.1., pp. 19 e segg.
[2] “Drammaturghi della famiglia come O’Neill, Tennessee Williams e Arthur Miller non proiettano semplicemente le proprie personali nevrosi, angosce e storie psichiche nelle loro pièces; le loro visioni di vita famigliare sono simboli di una storia sociale più ampia della loro [esperienza personale, n.d.t.]. Essi ritraggono una modernità senza dei, che genera patologie non definibili in base a un criterio di classe”. Pfister, J., op. cit., p. 229.
[3] “si può stabilire un paragone tra ciò che ha luogo a livello domestico e quel che emerge sul piano del corpo sociale. Effettivamente, il disordine proprio di ogni struttura famigliare ritratta da O’Neill sembra trovare eco in una crisi ugualmente profonda, situata a livello nazionale. L’incubo privato è saldamente legato agli eventi pubblici, e ci aiuta a comprenderli”. Dubost, T., op. cit., p. 78.
[4] “la malattia di una società affaristica”. La definizione si riferisce al titolo di un saggio di R.H.Tawney. Vedi: Wilson, R.N., The Writer as Social Seer, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1979, p. 79.
[5] “Questa storia del Sogno Americano mi angustia. Si discute del Sogno Americano, lo si vuol raccontare al mondo, ma che cos’è questo sogno se non il desiderio di cose materiali? Abbiamo seguito un corso egoista, avido”. Citato in: Bowen, C., The Curse of the Misbegotten, New York, McGraw-Hill, 1959, p. 315.
[6] “Mi sto convincendo del fatto che gli Stati Uniti, invece di essere il paese più prospero del mondo, sono il fallimento più grande. Sono il fallimento più grande poiché avevano avuto tutto, più di ogni altra nazione, ma essendosi sviluppati tanto freneticamente non hanno acquisito autentiche radici [corsivo mio, n.d.t.]. L’idea fissa [che gli Stati Uniti hanno, n.d.t.] è quell’eterno gioco del cercare di essere padroni della propria anima attraverso il possesso di qualcosa di esterno ad essa. In realtà ciò fu detto assai meglio nella Bibbia. Noi [il popolo americano, n.d.t.] siamo l’esempio più lampante del [versetto]: ‘Perché che gioverebbe a un uomo guadagnare tutto il mondo se poi perdesse la sua anima?’ [Matteo 16:26]“. Ibid., pp. 312-313.
[7] “la storia psicologica di una famiglia, sullo sfondo delle pulsioni verso il progresso materiale e [della] degenerazione spirituale del popolo americano”. Ibid., p. 312. Per una descrizione del ciclo, intitolato Tales of Possessors Self-Dispossessed, si rimanda a II.1.3., nota 128, p. 46.
[8] Un tema chiave della narrativa americana, da Hawthorne a Fitzgerald e oltre, che affascinò innumerevoli autori, fra cui i romanzieri naturalisti: Frank Norris (il suo Mc Teague, del 1899, fornì a Erich von Stroheim il soggetto del capolavoro cinematografico Greed, realizzato nel 1924) e Theodore Dreiser (An American Tragedy, 1925). In proposito vedi: Ruland, R.; Bradbury, M., op. cit., pp. 230; 248-249.
[9] “forze nevrotiche, piuttosto che la facile fiducia in se stessi [predicata da] Horatio Alger”. Pfister, J., op. cit., p. 65.
[10] A differenza della maggior parte delle situation comedies televisive, in cui prevale “la logica dell’occultamento delle contraddizioni presenti nel ‘sistema americano’ [...] in nome di un’intenzione rassicurante [tipica del mezzo televisivo, n.d.r..]”. Cartosio, B., op. cit., pp. 241-242.
[11] Per una trattazione dettagliata di questo aspetto si rimanda a II.2.2., pp. 61 e segg.
[12] “l’ampia base su cui riposa quasi tutta la colpa del mondo”. La definizione si trova in The House of the Seven Gables, ed è riportata in: Levin, H., op. cit., p. 87.
[13] “Il sogno materiale diventato realtà non apre i Tyrone alla vita, al contrario li taglia fuori da essa. L’isolamento domina le loro vite così come domina il paese”. Raleigh, J.H., “Two Sides of an American Past”, in: Voelker, P. (ed.), Eugene O’Neill, Milwaukee, The Milwaukee Repertory Theatre Company, 1978, p. 22.
[14] Nel monumentale Democracy in America, del 1835, de Tocqueville osserva: “Not only does democracy make every man forget his ancestors, but it hides his descendants and separates his contemporaries from him: it throws him back forever upon himself alone and threatens in the end to confine him entirely within the solitude of his own heart” (Non solo la democrazia fa sì che ogni uomo dimentichi i suoi antenati, ma [gli] nasconde i suoi discendenti e separa da lui i suoi contemporanei: lo respinge costantemente nel suo isolamento e, in ultima analisi, minaccia di confinarlo del tutto nella solitudine del suo cuore). Citato in: Raleigh, J.H., op. cit., p. 22.
[15] “L’esperienza famigliare americana sembra essere un esempio più estremo - un caso più puro, per così dire - delle forze sociali all’opera nel mondo occidentale”. Scanlan, T., op. cit., p. 3.
[16] “accelerate, amplificate e proiettate su uno schermo gigante”. Levin, H., op. cit., p. 9. |
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