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Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.1. Il dramma all’interno del canone o’neilliano

II.1.2. “Publication shall not take place...”

Una volta verificata la natura intimamente privata di Journey, non è difficile comprendere perché, quando depose il manoscritto sigillato  presso  la  casa  editrice  Random    House  nel  1945, l’autore prese severe precauzioni al fine di evitare un’immediata distribuzione del dramma e sottoscrisse  un  documento[1],  nel  quale  si   legge  che  la  pièce  avrebbe potuto essere pubblicata solo venticinque anni dopo la sua morte (che ebbe luogo il 27 novembre 1953) e non avrebbe dovuto in alcun caso essere rappresentata[2].

Fu, a quanto  pare, il  figlio  maggiore  del  drammaturgo, Eugene Jr, a insistere affinchè l’opera restasse inedita: pur considerandolo un capolavoro, egli pensava che il dramma rivelasse troppo esplicitamente le disfunzioni e i vizi ereditari degli O’Neill (in particolare, l’abuso di alcol del padre e dei due fratelli e la dipendenza dalla morfina della madre) ed era preoccupato per l’effetto che il testo avrebbe potuto avere sulla sua carriera di docente universitario.  Egli deplorava il fatto che “it puts me in a bad light. It shows the kind of family I come from”[3]Dopo che, nel 1950, Eugene Jr si tolse la vita, O’Neill sembrò cambiare idea sul conto di Journey, che era solito chiamare “our nest egg”, la nostra ultima risorsa (riferendosi alle preoccupazioni finanziarie che assillavano lui e la terza moglie, Carlotta Monterey).      

A detta di Carlotta, che fu nominata unica erede del marito ed ebbe così il completo controllo dei suoi scritti, poco prima di morire O’Neill le avrebbe dato il permesso non solo di pubblicare[4] il dramma, ma anche di farlo mettere in scena a Stoccolma[5] (dove fu rappresentato con straordinario successo il 2  febbraio  1956).   Fu poi lei a contattare,  nell’autunno  dello stesso anno, il regista  José  Quintero e a proporgli di dirigere la pièce a New York, in  una  messinscena[6] che fruttò  a  O’Neill il suo quarto (postumo) Premio Pulitzer e che diede definitivamente il via a un grande revival della sua drammaturgia. 

È importante sottolineare il ruolo di Carlotta Monterey nelle vicende che hanno a che fare con il dramma e con la fortuna postuma di O’Neill: alcuni critici[7] sostengono, senza nulla togliere ai meriti indiscussi del testo, che sarebbero state l’abilità manageriale della vedova e la sua scelta di pubblicare  Journey   a  soli   due  anni  dalla  morte    del    drammaturgo   a   fare della pièce un vero e proprio caso editoriale e a impedire  che   la   fama  di   O’Neill - notevolmente indebolitasi nel corso degli anni Quaranta, per via del suo prolungato esilio da Broadway e per l’avvento sulla scena teatrale di nuovi drammaturghi - fosse completamente eclissata negli Stati Uniti.

Nel 1934[8] O’Neill - la cui notorietà era già stata consacrata da tre Premi Pulitzer[9] e che sarebbe stato insignito due anni più tardi del massimo onore letterario mondiale, il Premio Nobel per la letteratura[10] - si era infatti ritirato dall’ambiente teatrale newyorkese.  In esso, il drammaturgo aveva lavorato quasi ininterrottamente, a partire dal suo debutto, nel  1916 alla Provincetown  Playhouse  con  l’atto unico Bound East for Cardiff, per poi passare (con Beyond the Horizon, nel ’20) ai palcoscenici di Broadway, che era solito definire   sprezzantemente   “the   amusement   racket”,   la    mafia     del divertimento,  forse  con in  mente i  facili successi  commerciali del padre, l’attore di melodrammi James O’Neill[11].

Secondo O’Neill, la Broadway degli anni Trenta non era poi molto diversa da quella a cavallo tra Otto e Novecento (di cui poteva vantare una conoscenza privilegiata, essendovi nato e cresciuto[12]): nonostante gli sforzi dello stesso O’Neill e di compagnie indipendenti come i Provincetown Players o i Washington Square Players per creare dal nulla una seria e originale drammaturgia americana, la massa continuava a vedere nel teatro un luogo di pura  evasione  e,  in  nome  del  successo commerciale della produzione, gli impresari si adeguavano alle esigenze dominanti di leggerezza e divertimento. O’Neill aveva sempre disprezzato questo stato di cose; inoltre, non amava particolarmente andare a teatro.  Nel 1924 dichiarò in un’intervista:

I hardly ever go to the theatre, although I read all the plays I can get. I don’t go to the theatre because I can always do a better production in my mind than the one on the stage. [...] Nor do I ever go to see one of my own plays.[13]

Convinto che nessuna produzione scenica fosse in grado di eguagliare la versione scritta di un dramma[14], O’Neill non s’era mai troppo interessato nemmeno alle prove delle sue pièces; le frequentava solo per impedire che regista e attori  stravolgessero  il  senso   del  suo  lavoro:   “a  play’s  fate  after  I’ve   written  it [...] is  just  roulette to me  with a  fat percentage in   favor   of   the   author  losing   his   play   either   artistically   or financially or both”[15].  Ad appassionarlo furono fin dall’inizio unicamente l’ideazione e la stesura di un dramma, il solitario lavoro di scavo nella coscienza da attuare, secondo l’ammonimento nietzschiano, con “lacrime e sangue”[16].

La scrittura drammatica divenne per O’Neill - in particolare negli ultimi anni - una vera e propria forma di terapia, un modo per espellere dalla propria mente inquieta gli spettri del passato, convertendoli in simboli teatrali e distillando così  il proprio dolore in letteratura.


[1] Nella lettera, indirizzata a Bennett Cerf e datata 29 novembre 1945, si legge: “[...] Publication shall not take place until twenty-five (25) years after my death; [...] however, it [Journey, n.d.t.] is never to be produced as a play” (La pubblicazione potrà avere luogo trascorsi venticinque anni dalla mia morte; in ogni caso, non dovrà mai essere messa in scena). Vedi: Bogard, T. & Bryer, J.R. (eds), Selected Letters of Eugene O’Neill, New York, Limelight, 1994, pp. 575; 589.

 

[2] Louis Sheaffer ricostruisce dettagliatamente, nella sua monumentale biografia di O’Neill, il “giallo” attorno alla pubblicazione e alla messa in scena del dramma. Si  veda in proposito: Sheaffer, L., op. cit., pp. 634-35.  Anche Virginia Floyd si occupa della questione, con particolare riferimento alle relazioni fra Carlotta Monterey O’Neill e il teatro di Stoccolma, in: Floyd, V., (ed.) Eugene O’Neill. A World View, New York, Frederick Ungar, 1979, pp. 34-60.

 

[3] “Mi mette in cattiva luce. Mostra da che razza di famiglia provengo”. Vedi: Chapman, J., “The Seven Haunted O’Neills”, in: The New York Times, Dec. 16, 1956, p.105. Nel periodo in cui O’Neill mostrò il manoscritto di Journey al figlio, Eugene Jr. era professore di Studi Classici a Yale. In Och ge oss skuggorna  (E dacci le ombre, 1991), Lars Norén ritrae questo importante momento, mettendo in scena l’ultimo incontro fra Eugene Jr e il padre. Per una discussione di questo dramma si rimanda a: III.3., pp. 181 e segg.

 

[4] Poiché Random House si rifiutò di rompere la clausola voluta da O’Neill, la pièce venne pubblicata negli Stati Uniti da Yale University Press, così come tutti gli altri drammi postumi (vedi: Sheaffer, L., op. cit., p. 634).

 

[5] Al Teatro Reale Drammatico, dove sarebbero state presentate le prime mondiali degli altri tre drammi postumi: A Touch of the Poet (1957); Hughie (1958) e More Stately Mansions (1964). Per una spiegazione dei motivi che indussero il drammaturgo a scegliere il teatro svedese si rimanda all’Appendice.

 

[6] Il dramma fu messo in scena a Broadway, allo Helen Hayes Theatre, il 7 novembre 1956.  Gli interpreti erano: Frederic March nel ruolo di Tyrone, Florence Eldrige in quello di Mary, Jason Robards Jr in quello di Jamie, Bradford Dillman in quello di Edmund e Katherine Ross nel ruolo della cameriera. La prima americana aveva avuto luogo, col medesimo cast, al Wilbur Theatre di Boston, il 15 ottobre 1956. Ulteriori informazioni sulle messe in scena si trovano in: Black, S., File on O’Neill, London, Methuen Drama, 1993, pp. 73-75.

 

[7] Vedi, ad esempio: Floyd, V., op. cit., pp. 44 e segg.

 

[8] Anno in cui fu pubblicato e rappresentato, con scarso successo, Days Without End.

 

[9] Nel 1920 per Beyond the Horizon; nel 1922 per Anna Christie e nel 1928 per Strange Interlude. Vedi: Black, S., op. cit., pp. 8-9.

 

[10] O’Neill resta a tutt’oggi l’unico drammaturgo statunitense ad aver ricevuto l’ambito riconoscimento.

 

[11] James O’Neill (1845-1920) divenne famoso recitando il ruolo di Edmond Dantés nel melodramma, tratto dal romanzo di Dumas, The Count of Monte Cristo. Nonostante fosse considerato, agli inizi della sua carriera, un attore dal grande potenziale tragico, egli preferì (proprio come il James Tyrone di Journey, di cui è il modello) la garanzia finanziaria di un guadagno sicuro e acquistò i diritti della pièce (The Count of Monte Cristo, appunto) che divenne la sua prigione. Interpretò la parte di Dantés per più di 6000 volte nell’arco di venticinque anni e può essere a buon diritto considerato un simbolo di quel teatro commerciale americano contro il quale suo figlio si rivoltò. Eugene O’Neill dichiarò che trovava “perfectly natural that having been brought up around the old conventional theatre, and having identified it with my father, I should rebel and go in a new direction” (perfettamente naturale che, essendo stato cresciuto nel giro del vecchio teatro convenzionale, e avendolo identificato con mio padre, io dovessi ribellarmi e andare in una nuova direzione), citato in: Törnqvist, E., A Drama of Souls, Uppsala, Almqvist & Wiksell, 1968, p. 19. 

 

[12] Profeticamente, O’Neill vide la luce il 16 ottobre 1888 in un hotel  (The Barrett House, poi demolito) all’angolo fra Broadway e la 43esima strada, nel mezzo di quello che di lì a pochi anni sarebbe diventato il “Theatre District” newyorkese. A pochi passi di distanza, sulla 44esima strada, David Belasco inaugurò nel 1907 il suo avveniristico teatro (il Belasco Theatre) e, sempre sulla 44esima al n. 240, aprì i battenti  nel 1912 lo Helen Hayes Theatre, dove Journey  ebbe la sua prima newyorkese. In proposito vedi: Bowen, C., The Curse of the Misbegotten, New York, Mc Graw-Hill, 1959, pp. 15-16.

 

[13] “Non vado quasi mai a teatro, per quanto io legga tutti i drammi che riesco a procurarmi. Non vado a teatro perché posso sempre realizzare una messa in scena migliore di quella sul palcoscenico nella mia mente. E non vado nemmeno mai a vedere i drammi che ho scritto”. Citato in: Törnqvist, E., op. cit., p. 23.

 

[14] Come conferma la grande attenzione che O’Neill dedicava, nei suoi drammi, alle indicazioni sceniche. In esse, così come nella lunghezza inusuale di molti testi, è parso ad alcuni critici di notare una tendenza “romanzesca”, che l’autore avrebbe ereditato dalla drammaturgia naturalistica di fine Ottocento. Lo stesso O’Neill aveva del resto dichiarato, a proposito della composizione di Beyond the Horizon, che: “he dreamed of wedding the theme for a novel to the play form in a way that would still leave the play master of the house” (sognava di sposare il tema di un romanzo alla forma drammaturgica, in maniera tale che la drammaturgia mantenesse una posizione di controllo). Törnqvist osserva inoltre: “The ample stage directions [...] give an epic touch to all O’Neill’s plays. From one point of view, this tendency may be regarded as an attempt to overcome the limitations inherent in the dramatic form. From another, it may be said to constitute an attempt to give artistic confirmation to O’Neill’s view that ‘the written play is the thing’” (Le ampie indicazioni sceniche danno un tocco epico a tutti i drammi di O’Neill. Da una parte, questa tendenza può essere considerata un tentativo di superare le limitazioni intrinseche alla forma drammatica. Dall’altra, si può dire che essa cerchi di dare una conferma artistica all’opinione di O’Neill che “il dramma scritto è la cosa importante”). Ibid., p. 25.

 

[15] “Il destino di un dramma dopo che ho finito di scriverlo è per me una roulette, e con buona probabilità l’autore perderà il suo dramma da un punto di vista artistico, o finanziario, o entrambi”. Così O’Neill dichiarò in una lettera a Benjamin De Casseres, citata in: Törnqvist, E., op. cit., p.24.  Fu forse anche a causa di quest’intima convinzione che O’Neill prese precauzioni rigorose affinché Journey - un dramma in cui l’autore si era messo completamente a nudo e la cui scrittura era stata tanto sofferta - non fosse rappresentato che dopo la sua morte.

 

[16] “Of all writing I love only that which is written with blood. Write with blood, and you will discover that blood is spirit” (Di tutta la scrittura, mi piace solo quella realizzata col sangue. Scrivi col sangue, e scoprirai che il sangue è spirito). L’aforisma di Nietzsche è riportato in: Bigsby, C.W.E., A Critical Introduction to Twentieth-Century American Drama, Vol. 1, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 36.

 

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