Capitolo
II II.2.1. Tema e struttura della situazione drammatica Come è noto, Journey ritrae i membri della famiglia Tyrone (la madre Mary, il padre James, il figlio ventitreenne Edmund e suo fratello Jamie, di dieci anni più vecchio) nella loro casa di vacanza in riva all’oceano[1], lungo l’arco di una singola giornata estiva, che dà il titolo al dramma. Il quartetto famigliare, arricchito dal personaggio della cameriera Cathleen, è impegnato da colazione a notte fonda in una serie di scontri verbali e confessioni reciproche, scatenati dalla situazione di crisi che la famiglia si trova ad affrontare. Due avvenimenti determinanti hanno luogo nel corso ella giornata: Mary ricade vittima della morfina, dopo un periodo di disintossicazione; Edmund scopre di avere la tubercolosi e di dover entrare al più presto in sanatorio. I due fatti (in relazione l’uno con l’altro, poiché è a causa della preoccupazione per le condizioni di salute di Edmund che Mary riprende a drogarsi) mettono in moto un girotondo di mutue colpevolizzazioni, in cui risentimenti di vecchia data riaffiorano, alleanze si formano e subito si frantumano, e la responsabilità dei problemi della famiglia è fatta rimbalzare all’infinito dall’uno all’altro dei suoi membri. I personaggi sono coinvolti in una sorta di estenuante processo, assimilabile anche a una seduta di psicoanalisi di gruppo, al fine di risalire alle origini della “maledizione”[2] che grava sulla famiglia. Da una parte, vorrebbero individuare un capro espiatorio, cui addossare l’intera responsabilità dei propri fallimenti (e il candidato più probabile sembra essere James Tyrone, la cui proverbiale taccagneria è identificata come l’epicentro delle sofferenze famigliari); dall’altra, il loro atteggiamento è riassumibile nella fatalistica affermazione di Mary:
L’intensa conflittualità della situazione drammatica fa di Journey una esemplare messa in atto della famosa riflessione hegeliana sul teatro. Secondo Hegel:
Come in gran parte della drammaturgia classica[5], l’impatto del testo deriva non tanto dall’azione fisica (il dramma è praticamente privo di intreccio e non v’è in esso un solo cambio di scena[6]), quanto dalla graduale rivelazione psicologica dei personaggi e della loro condizione attraverso il dialogo: le parole diventano azioni, armi con cui ferire e distruggere, ma anche (particolarmente nelle commoventi confessioni reciproche dell’ultimo atto) veicolo con cui i Tyrone si comunicano l’affetto che, nonostante tutto, li lega. In termini di struttura drammaturgica, Journey ha tutte le caratteristiche del dramma “analitico” di tradizione ibseniana[7]: presenta un numero ristretto di personaggi; osserva le tre unità aristoteliche, che creano un’intelaiatura spazio-temporale estremamente compatta; è suddiviso secondo il criterio classico dei quattro atti, organizzati ritualmente attorno ai momenti di riunione della famiglia per i pasti; infine, fa largo uso dell’ “esposizione”, ossia il procedimento retrospettivo che consiste in una ricapitolazione, da parte dei personaggi in scena, di vicende accadute prima che la pièce avesse inizio, e in una valutazione del loro effetto sulla situazione presente. Ad esempio: Mary rievoca la morte dell’adorato secondogenito Eugene, e la tormentata gestazione di Edmund, che la gettarono nella spirale di malattia e sensi di colpa da cui non è più del tutto uscita; allo stesso modo, James ricorda la sua infanzia di povero immigrato irlandese, e la usa a più riprese come giustificazione della sua attuale avarizia. Alla maniera del coro nella tragedia greca, i personaggi riportano incessantemente a galla gli avvenimenti cruciali, che hanno determinato in maniera inesorabile il loro destino. Tutto sembra aver già avuto luogo prima dell’alzarsi del sipario: ciò a cui assistiamo nel corso del dramma non sono che le conseguenze di eventi passati, gli effetti di azioni compiute da tempo e mai dimenticate, che ritornano come un’eco insopprimibile nel presente[8]. Per fare un solo esempio: il fatto che, per risparmiare, James affidò in passato la moglie alle cure di un dottore di terz’ordine, che la iniziò alla morfina, si rispecchia nella sua volontà presente di mandare Edmund in una clinica il più possibile economica, e assume il carattere di tragico “errore fatale”, quello cioè che non si può fare a meno di commettere. Le stesse battute sono state ripetute in molte altre occasioni e la loro reiterazione dà al testo un carattere rituale, quasi di litania (“I could see that line coming! God, how many thousand times!”[9], sbotta Jamie in risposta alla citazione shakespeariana del padre, mentre Mary interrompe uno dei suoi monologhi con la frase “But you’ve heard me say this a thousand times”[10]). Implicate nella sorte dei quattro Tyrone non sono solo le due generazioni di cui si compone la famiglia al presente, ma anche la generazione precedente: il tentato suicidio di Edmund, cui egli fa riferimento nel Quarto Atto[11], è legato alla misteriosa morte del nonno paterno, così come la tubercolosi di cui soffre fu la causa di morte di quello materno. In una interpretazione del destino individuale che sta a metà tra il più rigoroso determinismo (legato al concetto di ereditarietà, ovvero a quel destino “scritto nel sangue”, contro il quale non c’è modo di combattere) e un altrettanto rigoroso fatalismo, le generazioni finiscono col confondersi, e così il tempo. Come esclama Mary nella frase che è un po’ il manifesto della pièce:
Il tempo è percepito dai personaggi come una specie di trappola: un sistema chiuso di relazioni simbiotiche tra avvenimenti passati, situazione presente e futura, organizzato secondo ferree leggi di causa-effetto e poggiante su uno schema circolare di eterna ripetizione. Il “tempo drammatico”[13] di Journey si compone di due movimenti opposti, seppure intrecciati insieme: da una parte, l’azione visibile si muove in avanti, dalla mattina alla tarda serata, verso una situazione di stallo e paralisi emotiva; dall’altra, dentro questa manciata di ore è compressa la storia collettiva della famiglia e il tempo si muove a ritroso, all’interno della coscienza dei singoli personaggi e dei loro dialoghi, in un percorso virtualmente illimitato nel passato. Questo secondo movimento è di gran lunga dominante: il peso del passato è tale che il futuro - e, con esso, la speranza che la situazione famigliare possa migliorare - vengono praticamente obliterati[14]. Sotto il progressivo influsso della morfina, Mary si spinge sempre più indietro nella memoria, e trascina con sé nel suo viaggio retrospettivo gli altri personaggi: dapprima ricorda il tempo in cui i figli erano piccoli, poi il suo matrimonio con James, le circostanze in cui lo incontrò e si innamorò di lui, infine i giorni di scuola in convento, quando ingenuamente accarezzava il sogno di diventare una pianista professionista. Un esempio del vero e proprio itinerario di anamnesi, in cui Mary si avventura sotto l’effetto del narcotico, è dato dai lunghi monologhi dell’Atto Terzo: sola in casa con Cathleen, ormai alla terza iniezione di morfina, Mary si abbandona a una nostalgica rievocazione del passato felice, fino allo “horrible accident”[15] che l’ha resa invalida. Quando l’effetto della droga comincia a venir meno, la nostalgia del ricordo lascia spazio a un’amara constatazione del vuoto esistenziale del presente, e Mary si autocommisera: “You’re a sentimental fool. What is so wonderful about that[...]? If I could only find the faith I lost”[16]. Ciò che la madre cerca di recuperare, nel corso dei suoi sogni a occhi aperti, non è tanto un evento particolare, quanto piuttosto uno stato mentale: la fede, sia in una divinità che nelle proprie possibilità individuali, e la volontà di trovare un significato e uno scopo nell’esistenza. Almeno fino alla nascita di Edmund, che fu il colpo decisivo[17] alla sua salute, la vita aveva in serbo potenzialità positive, di cui non v’è più traccia nel presente. Fatta eccezione per Jamie, che sembra non averne mai avuti, tutti i Tyrone hanno tradito i loro sogni, o sono stati costretti ad abbandonarli: Mary ha lasciato la musica quando si è sposata, James ha tradito la vocazione a una carriera attoriale d’alto livello per i facili guadagni del teatro commerciale, Edmund ha visto sbriciolarsi la sua aspirazione a una vita libera per mare, che la malattia ha troncato sul nascere. Mary si fa portavoce del generale senso di smarrimento della famiglia quando dice:
[1] Il nome del luogo non è specificato, ma è chiaro da molti dettagli (ad es. i riferimenti alle balene) che ci troviamo sulla costa atlantica a nord di New York.
[2] Con il termine “curse” (maledizione) James Tyrone si riferisce, parlando con Jamie, alla dipendenza dalla morfina della moglie: “It would be like a curse she can’t escape if worry over Edmund—“ (Sarebbe come una maledizione cui non può sfuggire se la preoccupazione per Edmund—[sottinteso: la facesse ricadere nell’uso della droga, n.d.t.]). O’Neill, E., op. cit , p. 33. Più in generale, la maledizione è quella dell’eterno ripetersi del passato famigliare, che - come dice Mary - “è il presente, e anche il futuro”, e in cui i Tyrone sono irrimediabilmente invischiati.
[3] “Nessuno di noi ha colpa delle cose che la vita ci ha combinato. Accadono prima che uno se ne renda conto, e poi da queste cose si è costretti a farne altre, finchè la distanza tra ciò che si è e ciò che si sarebbe voluti essere è enorme, e si è perduta per sempre la nostra vera essenza”. Ibid., p. 53.
[4] Riportato in: Pavis, P., op. cit., p. 97.
[5] Martin Lamm osserva: “de flesta antika tragedier äro statiska. Deras storhet [...] ligger icke i handlingarna utan i orden. [...]Det skräckinjagande intryck de göra beror på vad som sägs och kanske ännu mer på vad som anas bakom det som säges, det som Maeterlinck kallar ‘den inre dialogen’” (la maggior parte delle tragedie antiche sono statiche. La loro grandezza non sta in ciò che accade, ma nelle parole. L’impressione terrificante che comunicano dipende da ciò che in esse si dice e forse ancora di più da ciò che solo si intuisce dietro al dialogo, ciò che Maeterlinck chiama “il dialogo nascosto”). Lamm, M., Det moderna dramat, Stockholm, Bonniers, 1964, pp. 17-18.
[6] Il testo prescrive una scena fissa, monospaziale, che rappresenta il “living room”, ovvero la stanza di soggiorno del cottage. O’Neill, E., op. cit., p. 9.
[7] Si veda in proposito: Szondi,P., Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962, pp. 15-24.
[8] “Il presente è puramente lo specchio sul quale affiorano e scivolano le storie dei protagonisti, già definite dal peso del loro passato”. Bajma Griga, S., op. cit., p. 36. John Henry Raleigh interpreta il rapporto tra presente e passato in Journey come dicotomia fra una componente statica (l’azione nel presente) e una dinamica (il dispiegarsi del passato). Vedi: Raleigh, J.H., The Plays of Eugene O’Neill, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1965, p. 200.
[9] “Me l’aspettavo questa battuta! Signore, quante migliaia di volte [l’ho ascoltata, n.d.t.]!”. O’Neill, E., op. cit., p. 28.
[10] “Ma mi avete sentito dire queste cose migliaia di volte”, ibid., p. 53.
[11] Ibid., p. 128.
[12] “Il passato è il presente, non è vero? Ed è anche il futuro. Cerchiamo tutti di sfuggirgli [o anche: di far finta che non sia così, n.d.t.], ma la vita non ce lo permette”. Ibid., p. 75.
[13] Così Pavis definisce “il tempo della finzione di cui parla la vicenda”, e lo distingue dal “tempo scenico”, che è quello “vissuto dallo spettatore posto di fronte all’evento teatrale e legato allo svolgimento dello spettacolo”. Pavis, P., op. cit., p. 480.
[14] In A Moon for the Misbegotten Jamie Tyrone dice a Josie Hogan: “There is no present or future - only the past happening over and over again - now” (Non c’è presente né futuro – solo il passato che si ripete ancora e ancora – [come] in questo momento). Citato in: Raleigh, J.H., op. cit., p. 85.
[15] “terribile incidente”. O’Neill, E., op. cit., p. 89. Si tratta della lunga malattia, da cui Mary fu colpita dopo la nascita di Edmund e in cui per la prima volta le fu somministrata la morfina.
[16] “Sei una sciocca sentimentale. Che cosa c’è di meraviglioso in tutto questo? Se solo potessi ritrovare la fiducia [e anche: la fede religiosa, n.d.t.] che ho perso”. Ibid., p. 92.
[17] “[...]bearing Edmund was the last straw” (dare alla luce Edmund fu il colpo decisivo). Ibid. p. 75. La nascita di Edmund è identificata da Mary come il punto nevralgico, in cui ha avuto inizio la sua dipendenza dalla droga e tutto ha cominciato ad andare a rotoli. Ella arriva ad affermare: “I never should have born Edmund” (Non avrei mai dovuto mettere al mondo Edmund) e il ragazzo, consapevole della situazione, non può fare a meno di sentirsi in colpa per aver scatenato la sofferenza materna.
[18] “Non ho mai capito nulla di questa cosa, tranne che un giorno molto tempo fa mi accorsi che la mia anima non mi apparteneva più”. Ibid., p. 80. |
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