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Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.2.3. Dalla luce alle tenebre: il“viaggio”simbolico dell’azione

L’andamento del dramma consiste essenzialmente in un graduale moto di   involuzione[1]  - interno  all’animo  dei personaggi e tradotto scenicamente con vari artifici - da un’esile nota   iniziale  di   speranza (in  particolare  per  quel  che  riguarda la guarigione di Mary, vero perno attorno a cui ruota l’intera azione)  verso un  rimpianto  sempre  più  amaro  per  ciò   che   avrebbe  potuto essere e non è:  James un grande  attore di qualità, invece di un guitto melodrammatico, che ha sacrificato  il proprio talento alla  sicurezza economica; Mary  una cattolica devota,  o  almeno  una  rispettabile  moglie e  madre borghese; Edmund e Jamie adulti responsabili  in  grado di  cavarsela da soli,  invece di due relitti dediti all’alcol.   La  scena  finale,  nella  quale  una  Mary ormai  sprofondata  nell’euforia artificiale della morfina appare in salotto come  uno spettro  nel bel mezzo della notte, e si lascia andare a un patetico delirio, è una visualizzazione eloquente (e di sapore shakespeariano[2]) della disillusione, cui iTyrone sono giunti nel corso della giornata.

L’azione    si    sviluppa  come   una    partitura    musicale: esordisce   in   una  flebile   tonalità   maggiore (con la famiglia almeno  apparentemente  unita, di buon umore e aperta al dialogo nell’Atto Primo); procede su accordi via via più dolenti, in cui la violenza del rancore si alterna al lamento accorato  e  in esso si stempera (Secondo e Terzo Atto sono dominati  dal disincanto  dei  Tyrone  di fronte alla  ricaduta di Mary:  “We’ve lived  with this before and now we must again.  There’s no help for it” [3]);  si conclude con un colpo di scena in “fortissimo”, che lascia i tre uomini come pietrificati[4].  L’apparizione “ad effetto” di Mary drogata e il suo toccante monologo conclusivo, spesso paragonato  per la sua qualità di rêverie delirante al monologo finale di Molly Bloom in Ulysses, sono introdotti - nel modo esatto in cui era introdotta la scena finale di Hedda Gabler[5] di Ibsen - da uno struggente motivo musicale: una sorta di estremo canto del cigno, che dispone al climax  tragico  e dopo  il quale non può  che calare il sipario (al termine del Quarto  Atto, prima di varcare la soglia del soggiorno, la madre accenna  al  pianoforte le note iniziali di un valzer di Chopin, compositore tra i  più malinconici). 

La progressione del tempo atmosferico lungo le sedici ore dell’azione (dalla  luce  all’oscurità;  dall’aria  tersa  alla nebbia fitta) segue simbolicamente il “viaggio”  interiore,  che i personaggi  compiono dall’ottimismo precario  d’inizio  giornata  allo stato di torpore fisico e morale del finale, in cui non  v’è altra scelta  che  accettare con rassegnazione “the things life has done to us we cannot excuse or explain”[6].

Il Primo Atto si apre alle 8.30, il sole splende attraverso le finestre del soggiorno e non v’è traccia della nebbia della notte precedente; il Secondo Atto, che ha inizio alle 12.45, registra un aumento dell’afa e una leggera foschia nell’aria estiva.   Nel corso del pomeriggio la foschia  si  fa  via via più densa fino a mutarsi in fitta nebbia già in  apertura  del  Terzo  Atto,  intorno   alle   18.30,   quando   anche   la   sirena   della nebbia   comincia a suonare a intervalli regolari.  Infine, all’inizio del  Quarto e ultimo Atto intorno a mezzanotte, “the wall of fog appears denser than ever”[7]. Secondo Egil Törnqvist:

The gradual thickening of the fog outside has an obvious counterpart in the gradually befogged state of mind of the Tyrone household. It is [...] after Mary has taken [her first] morphine injection and while the men start their drinking that the sky begins to turn hazy.  [...] Shortly before the final curtain we see three drunken men with filled glasses before them in frozen stillness listening to a woman who, dulled by morphine, dreams aloud, hidden in a bank of fog as impenetrable as the outer wall of fog.[8]

Il  passaggio dalla luminosità mattutina alle tenebre notturne - rese ancora più cupe  dal  rifiuto   del   padre   di illuminare adeguatamente la casa[9] - e l’addensarsi della foschia attorno al cottage, che finirà per essere letteralmente inghiottito dalla nebbia a notte fonda, riproducono scenicamente il desiderio dei personaggi di isolarsi in un mondo illusorio, dove occultare agli altri e a se stessi il proprio disagio, e in cui si possano cancellare temporaneamente la crudeltà e l’insensatezza dell’esistenza.

Il bisogno di fuggire la realtà - soddisfatto attraverso una serie di agenti che, parafrasando un illustre critico o’neilliano, potremmo sintetizzare nella triade “dream, drunkenness and dope”[10] - è proprio di  tutti i  Tyrone, ma è avvertito in modo particolare dai due membri più sensibili della famiglia, Mary ed Edmund. Entrambi commentano entusiasti sulle condizioni atmosferiche:  Mary ama la foschia perché “it hides you from the world and the world from you.  You feel that everything has changed, and nothing is what it seemed to be. No one can find or touch you anymore”[11]; per Edmund la nebbia è “what I needed”[12]. La descrizione che egli fa della sua passeggiata notturna fa eco alle parole della madre, e vale la pena di citarla nella sua interezza:

The fog was where I wanted to be. Halfway down the path you can’t see this house. You’d never know it was here. Or any of the other places down the avenue. I couldn’t see but a few feet ahead. I didn’t meet a soul. Everything looked and sounded unreal. Nothing was what it is. That’s what I wanted – to be alone with myself in another world where truth is untrue and life can hide from itself. Out beyond the harbour, where the road runs along the beach, I even lost the feeling of being on land. The fog and the sea seemed part of each other. It was like walking on the bottom of the sea. As if I had drowned long ago. As if I was a ghost belonging to the fog, and the fog was the ghost of the sea. It felt damned peaceful to be nothing more than a ghost within a ghost.[13]

La nebbia e la notte - che Jean Chevalier e Alain Gheerbrant identificano nel loro Dizionario come “simboli dell’indeterminato [...] in cui si mescolano incubi e mostri”, nonché “immagine dell’inconscio”[14] - ammorbidiscono la superficie tagliente  della  realtà,  o almeno  consentono  di  non vederla, e funzionano dunque come una maschera protettiva, allo stesso modo del bourbon o della morfina che Mary si inietta. Una  notte  nebbiosa è  l’ideale  “pipe dream weather“[15] ed evoca un mondo “a parte”, oltre la vita.

Törnqvist  suggerisce[16] che la foschia in Journey sia il corrispettivo del “sonno” shakespeariano, quello a cui Prospero si riferisce, in The Tempest,  con versi  memorabili: “We are such stuff  as  dreams are made on, and our little life is rounded with  a sleep”[17].   La   vita   umana,  secondo O’Neill,   non   sarebbe che   uno  “strano  interludio”:   una   lunga  giornata[18]  avvolta nella   nebbia,  una frazione di luce circondata dalle tenebre.

Ritorna in Journey un motivo caro al primo O’Neill, quello di Fog[19]  e Anna Christie: la nebbia  come  “veiled borderland between life and death”[20], mistica terra di nessuno in cui è concesso di sperimentare “a  rapturous feeling of annihilation of the self”[21], ossia ciò a cui tutti i Tyrone aspirano, nella speranza di mettere a tacere i sensi di colpa che lacerano le loro coscienze.

Se la finalità principale della foschia - così come dell’abuso di alcol e droga da parte dei personaggi - consiste nell’ergere una   barriera   difensiva, dietro la quale la famiglia possa nascondere la propria inquietudine, da un punto di vista drammaturgico tutti questi elementi hanno anche una funzione opposta,  “rivelatrice”: da una parte, il consumo di  whisky rende gli uomini loquaci e alimenta un’atmosfera che li conduce a confessarsi l’uno con l’altro nell’ultimo atto (e lo stesso  si può dire dell’effetto della morfina su Mary); dall’altra, il buio e la nebbia sempre più densa evidenziano la tragica separatezza dei personaggi e preparano il terreno alla spettrale apparizione finale della madre. Un’osservazione di Jean Chevalier in margine alla sua trattazione del simbolo della nebbia è illuminante: nella mitologia celtica - egli nota - “si ritiene che la nebbia preceda le rivelazioni importanti; essa è il preludio alla pienezza della manifestazione”[22]

Può darsi che O’Neill avesse presente questo particolare significato  simbolico  della  foschia;  in ogni caso, l’uso che egli  fa  delle condizioni atmosferiche nel dramma è estremamente complesso    e    si    colora di molteplici significati, non di rado  contrastanti.  Un impiego   affine delle condizioni meteorologiche in funzione simbolica si rileva in molti drammi di Strindberg, in particolare in Dödsdansen (uno dei preferiti di O’Neill),  in cui  il  lento svilupparsi  della  tempesta  sull’arcipelago svedese accompagna e riflette il clima psicologico  sempre  più  teso   fra  i  due  coniugi in scena.

“Truth comes in with darkness”, aveva notato Herman Melville[23]: man mano che la giornata avanza e l’oscurità  scende sulla  casa,  emerge  la  verità  sui  Tyrone, che  si  rivelano  irrimediabilmente   impigliati   nella    rete    del    proprio   “romanzo famigliare”.   Incapaci di lasciarsi alle spalle gli errori e le debolezze di una vita (“That’s what makes it so hard – for all of us. We can’t forget”[24], esclama a un certo punto la madre), e anzi condannati a ripeterli tragicamente nel presente, essi sono bloccati anche fisicamente tra le quattro mura del   loro  salotto   borghese, e possono  così  dar  vita  a  un perfetto  kammerspiel.   Da questo inferno domestico, che rimanda ai drammi di Strindberg e al claustrofobico Huis Clos di Sartre,  non sembra esserci alcuna via  d’uscita, se non nel fugace oblio  fornito da sostanze stupefacenti, né s’intravedono possibilità di cambiamento: a questo proposito, la dichiarazione di Jamie “You can’t change the  leopard’s spots”[25] è eloquente.

L’immagine conclusiva di Journey, con i quattro personaggi immobili e “freezed into silence”[26], non può non richiamare alla memoria il finale  di  En attendant Godot.     Come  Vladimir  ed  Estragon nella pièce di Beckett, i  Tyrone vorrebbero allontanarsi dalla scena, ma non hanno nessun altro luogo dove andare[27]; vorrebbero scappar via dall’atmosfera soffocante di questo interno di provincia, ma intuiscono che non c’è modo di evadere da quello che hanno imparato ad accettare come il loro destino.  Nessun narcotico può cancellare il deserto che si portano dentro, e la stanza in   cui sono imprigionati  non  è altro che lo spazio cavo del loro cuore o, se si preferisce, del loro inconscio: davvero un inferno “a porte chiuse”.


[1] Secondo Törnqvist: “we may speak either of a linear development [...] or of a circular progression. I believe O’Neill had both movements in mind” (si può parlare o di uno sviluppo lineare, o di una progressione circolare [se si considera anche la notte che precede l’inizio del dramma, e si interpreta il ritmo dell’azione come un eterno ripetersi della sequenza buio-luce-buio, n.d.t.]. Io credo che O’Neill avesse in mente entrambi i movimenti). Ibid., p. 98.

 

[2] L’entrata in scena di Mary suggerisce di riflesso una delle più celebrate immagini della follia che la storia teatrale ricordi: la pazzia di Ofelia. O’Neill ne era ben consapevole e con gusto metateatrale fa dire a Jamie mentre la madre oltrepassa la soglia del salotto: “The mad scene. Enter Ophelia” (La scena della follia. Entra Ofelia). O’Neill, E., op. cit., p. 151. O’Neill confidò all’amico Sophus Keith Winther che la scena finale di  Journey  era “the greatest scene I have ever written” (la miglior scena ch’io abbia mai scritto).  Riportato in: Sheaffer, L., op. cit., p. 517.

 

[3] “Abbiamo convissuto con questa situazione in passato e ora ci tocca sopportarla di nuovo. Non c’è rimedio”. Così si lamenta James nella seconda parte dell’Atto Secondo: O’Neill, E., op. cit., p. 67.

 

[4] “motionless” (immobili) è l’aggettivo usato da O’Neill nelle indicazioni sceniche per descrivere la reazione dei Tyrone al monologo di Mary: ibid., p. 156. Il riferimento è anche al mito della Gorgone, che Edmund aveva citato poco prima parlando col padre: “Who wants to see life as it is, if they can help it? It’s the three Gorgons in one. You look in their faces and turn to stone [...] and have to go on living as a ghost” (Chi vuol vedere la vita come è, potendone fare a meno? È le tre Gorgoni riunite. Se le guardi in faccia ti trasformi in pietra, e devi continuare a vivere come un fantasma), ibid., p. 113.

 

[5] Nel dramma di Ibsen la protagonista, appena prima di uccidersi con un colpo di pistola, “går inn i bakværelset [...]. Plutselig høres hun å spille en vill dansemelodi inne på pianoet” (va nel salottino [in Journey Mary è nel “front parlour”, l’equivalente del salottino ibseniano, n.d.t.] e improvvisamente la si ode suonare al pianoforte un indiavolato ritmo di danza). Ibsen, H., Hedda Gabler, in: Samlede Verker, III, Oslo, Gyldendal Norsk Forlag, 1960, p. 309.  Quello dello “stacco” musicale, che Ibsen adopera anche in Et dukkehjem e che ritroviamo sia in Fröken Julie sia in Dödsdansen di Strindberg, è un accorgimento ingegnoso, col quale il drammaturgo anticipa e accompagna il momento chiave dell’azione, avvolgendola allo stesso tempo in un alone suggestivo. O’Neill, profondamente influenzato da questa pièce, aveva già utilizzato lo spunto in un altro suo dramma, Ile (1917), in cui la protagonista manifesta il suo squilibrio mentale scatenandosi al pianoforte. Un’ottima analisi di Ile è contenuta in: Bajma Griga, S., op. cit., pp. 15-36.

 

[6] “le cose che la vita ci ha fatto e che non possiamo né giustificare, né spiegare”: O’Neill, E., op. cit., p. 73. Mary si rivolge con queste parole al marito verso la fine dell’Atto Secondo, quando è ormai evidente che ha ripreso a drogarsi.

 

[7] Il testo riporta: alle 8.30 “sunshine” (bel tempo, ibid., p. 10); all’ora di pranzo “the day is [...] increasingly sultry, with a faint haziness in the air” (la giornata è sempre più afosa, con una leggera foschia nell’aria, p. 44. L’aggettivo “sultry” significa anche “soffocante” e ha dunque una doppia connotazione, atmosferica e psicologica); alle 18.30 “the fog [...] has rolled in from the Sound and is like a white curtain drawn down outside the windows” (la nebbia si è insinuata dallo Stretto ed è come una cortina bianca abbassata fuori dalle finestre, p. 83). Infine, a mezzanotte “the wall of fog appears denser than ever” (il muro di nebbia appare più denso che mai, p. 108). A partire dal Terzo Atto, la sirena e le campanelle delle navi costituiscono un funereo accompagnamento alla pièce.

 

[8] “Il progressivo addensarsi della nebbia all’esterno ha un’ovvia controparte nello stato mentale via via più annebbiato della famiglia Tyrone. È [solo] dopo che Mary si è fatta la prima iniezione di morfina e quando gli uomini  iniziano a bere che il cielo comincia a infoschirsi. Poco prima che cali il sipario, abbiamo di fronte tre uomini ubriachi, con davanti i loro bicchieri colmi, che ascoltano immobili una donna stordita dalla morfina: ella sogna ad occhi aperti, seppellita in un banco di nebbia tanto impenetrabile quanto il muro di nebbia esterno”. Törnqvist, E., op. cit., pp. 95-96.

 

[9] James si rifiuta di tenere accesa la luce nell’ingresso, e ciò fa sì che Edmund vada a sbattere contro l’attaccapanni quando rientra. Anche Jamie, rincasando a notte fonda, inciampa sugli scalini per via del buio ed esclama, con eloquenza da ubriaco:”What the hell is this, the morgue? [...]Can’t expect us to live in the Black Hole of Calcutta” (Cosa diavolo è questo, l’obitorio? Non può pretendere di farci vivere nella Buia Grotta di Calcutta). O’Neill, E., op. cit., pp. 136-137. Sulle situazioni di comicità, generate dall’ossessione del padre per il risparmio di luce elettrica, vedi nota n. 159, p. 57.

 

[10] “sogno, ubriachezza e droga”. Edwin Engel intitolava invece “Dream, Drunkenness and Death” (Sogno, ubriachezza e morte) l’ultimo capitolo, dedicato ai drammi autobiografici, della sua monografia su O’Neill: Engel, E., The Haunted Heroes of Eugene O’Neill, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1953, p. x.

 

[11] “ti nasconde al mondo, e [nasconde] il mondo a te. Hai l’impressione che tutto sia cambiato, e nulla sia più come sembrava prima. Nessuno può più trovarti o sfiorarti”. O’Neill, E., op. cit., p. 84. In questo caso il verbo “to touch” presenta un’accezione negativa, che in italiano può essere resa con i verbi: “colpire”, “far male”, “danneggiare”.

 

[12] “ciò di cui avevo bisogno”. Ibid., p. 112.

 

[13] “Avevo voglia di starmene nella nebbia. A metà del sentiero la casa non si vede già più. Penseresti quasi che non esiste. E così tutti gli altri edifici lungo il viale. Non riuscivo a vedere oltre un metro davanti a me. Non ho incontrato anima viva. Tutto aveva un aspetto e un rumore irreali. Niente era come è [normalmente, n.d.t.]. Era proprio quel che volevo – starmene da solo con me stesso in un altro mondo dove la verità è il suo contrario e la vita può celarsi a se stessa. Fuori oltre il porto, dove la strada corre lungo la spiaggia, ho perfino avuto la sensazione di non essere più sulla terraferma. La nebbia e il mare sembravano parte l’una dell’altro. Era come camminare sul  fondo  del mare.  Come  se fossi annegato tanto tempo fa. Come se fossi un fantasma

della nebbia, e la nebbia fosse a sua volta il fantasma del mare. Ci si sentiva maledettamente  in pace a non essere niente più che un fantasma dentro a un altro fantasma”. Ibid., p. 113.

 

[14] Chevalier, J.; Gheerbrant, A., Dizionario dei Simboli, Vol. II, Milano, BUR, 1997, pp. 122; 136.

 

[15] “tempo da sogno-illusione”, Törnqvist, E., op. cit., p. 98. Il “pipe dream”, a cui O’Neill si riferisce altrove come “hopeless hope” (speranza disperata), è la menzogna vitale, l’illusione senza la quale la vita non sarebbe sopportabile. Esso costituisce il leitmotif del dramma  The Iceman Cometh  (1939).

 

[16] Ibid., p. 99. John Henry Raleigh propone invece un parallelo con la chiusa del racconto di Joyce The Dead, in cui il cadere della neve ha la medesima funzione della nebbia o’neilliana, cioè indica l’incerto confine tra vita e morte. Raleigh, J.H., op. cit., p. 152.

 

[17] “Siamo fatti della medesima sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata  dal  sonno”.  Shakespeare, W., La Tempesta, trad. di  G. Baldini, Milano, BUR, 1973, pp. 234-235.

 

[18] Nel dramma Marco Millions (1928), O’Neill faceva dire al personaggio del vecchio saggio: “every day is a life in miniature” (ogni giornata è una vita in miniatura). Citato in : Törnqvist, E., op. cit., p. 99.

 

[19] Uno dei primi atti unici, composti da O’Neill tra il 1913 e il ’14 e messi in scena dai Provincetown Players nella stagione 1916-1917. Vedi: Ibid., pp. 258-260.

 

[20] “confine velato tra vita e morte”. Ibid., p. 95.

 

[21] “una sensazione estatica di annullamento di sé”. Ibid., p. 93.

 

[22] Chevalier, J.; Gheerbrant, A., op. cit., p. 122.

 

[23] “Col crepuscolo arriva la verità”. Nel finale del racconto The Piazza, citato in: Levin, H., The Power of Blackness, New York, Vintage Books, 1960, p. 188.

 

[24] “È questo che rende le cose così difficili – per tutti noi. Non riusciamo a dimenticare”. O’Neill, E., op. cit., p. 42. L’incapacità di dimenticare, che affligge i Tyrone, è sottolineata da O’Neill in una lettera all’amico George Jean Nathan, in cui il drammaturgo riassume così la situazione critica dei personaggi: “At the final curtain, there they still are, trapped within each other by the past[...], understanding and yet not understanding at all, forgiving but still doomed never to be able to forget” (Al calare del sipario, eccoli ancora lì intrappolati l’uno nell’altro dal passato, comprendono [la loro situazione] e allo stesso tempo non la comprendono affatto, sono in grado di perdonarsi, ma sono condannati a non poter mai dimenticare).Vedi: Bogard, T.& Bryer, J.R., op. cit., p. 506.

 

[25] “Non si può cambiare la pelle del leopardo”. O’Neill, E., op. cit., p. 27.

 

[26] “in un silenzio congelato”, ibid., p. 151.

 

[27] “How could I leave? There is nowhere I could go” (Come potrei andarmene [ma anche: lasciarvi, n.d.t.]? Non c’è nessun posto dove possa andare). Così risponde Mary a James, che la esorta a lasciare la casa nel pomeriggio per una passeggiata. Ibid., p. 72.

 

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