Capitolo
III III.1.1. Il passaggio dalla poesia alla produzione drammatica Nei primi anni Settanta Norén, trasferitosi stabilmente a Stoccolma, pubblicò una serie di romanzi[1] in cui la critica è concorde nel vedere il principio di un cambiamento di rotta, che porterà l’autore a misurarsi con il genere drammatico. Anche le liriche di questo periodo ostentano una forma sempre più narrativa, sovente aneddotica e diaristica, come nelle raccolte Kung Mej och andra dikter (Re Me e altre poesie, 1973) e Dagbok (Diario, 1976). Nella postfazione a Kung Mej è lo stesso Norén che si fa avanti, manifestando ironicamente il desiderio di una radicale metamorfosi stilistica:
Norén ha anche dichiarato[3] che la sua creatività poetica si era progressivamente inaridita: le sue poesie erano diventate via via più astruse ed esangui, e lo scrittore rischiava di arenarsi sempre più nel vicolo cieco di un rarefatto minimalismo. Egli aveva bisogno di un mezzo più strutturato, meno astratto della poesia, attraverso il quale liberare la polifonia di voci che premevano dentro alla sua mente: aveva davanti a sé due strade, quella del romanzo e quella del teatro, e trovò nella seconda la via più congeniale ad esprimersi. I primi esperimenti drammaturgici in cui Norén si cimentò furono le pièces radiofoniche Box Ett (Casella Uno, 1972) e Röster (Voci, 1973) e il dramma storico Fursteslickaren (L’adulatore del principe, 1973), ambientato in una corte rinascimentale tedesca, che ebbe la sua prima nella Sala Piccola di Dramaten e raccolse aspre stroncature praticamente su tutti i fronti[4]. La profonda umiliazione di aver fatto clamorosamente fiasco tenne Norén lontano dalle scene per i successivi quattro anni, nei quali continuò a pubblicare poesie. Tuttavia, la consapevolezza che fosse necessario abbandonare la forma poetica per quella drammatica si era ormai radicata nell’animo dell’autore; come egli confessò in un’intervista al critico Magnus Florin:
Così nel 1978 Norén prese la decisione di concentrarsi unicamente sulla scrittura drammatica[6] e due anni più tardi pubblicò le tre pièces che lo rivelarono al pubblico svedese in qualità di valido autore teatrale. Si tratta di: Modet att döda (Il coraggio di uccidere), Akt utan nåd (Atto senza pietà) e Orestes[7] (quest’ultimo una riscrittura-frammento dell’Orestea), drammi in bilico tra il più rigoroso naturalismo e soluzioni inquietanti alla Harold Pinter, che danno inizio alla serie di incontri/scontri fra individui chiusi in una stanza, cui Norén ci ha abituato nel corso della sua carriera. Modet att döda e Orestes inaugurano la riflessione sul tema della famiglia in crisi e degli inquieti rapporti tra genitori e figli, che costituirà l’imprinting della produzione di Norén. Entrambe le pièces inscenano atti di violenza compiuti dai figli sui genitori, i quali emergono come individui complessivamente frustrati, egoisti e arroganti, del tutto indifferenti alle silenziose richieste di affetto dei loro discendenti eppure morbosamente desiderosi di infiltrarsi nella loro vita. Il protagonista di Modet att döda, il trentenne Erik, accenna all’invadenza paterna con l’espressione “du våldgästar mig”, che si potrebbe tradurre con “forzi la tua presenza presso di me”, “mi invadi”; appena prima di avventarsi sul padre, egli palesa la motivazione del suo gesto estremo: “Det är det enda sättet som jag har [...] den enda vägen jag kan tränga ut”[8]. Il “coraggio” a cui si fa riferimento nel titolo è, come da manuale freudiano, quello di un parricidio reale e simbolico, ovvero la volontà - da parte del figlio - di recidere l’amato-odiato legame di sangue per poter affermare la propria fragile individualità, per spingersi fuori dalla soffocante “stanza” famigliare. A proposito della metafora della “stanza chiusa”[9], il ring fisico e mentale nel quale si affronta la quasi totalità dei personaggi di Norén, il drammaturgo ha dichiarato:
[1] Fra cui: Biskötarna (I curatori di api, 1970) e I den underjordiska himlen (Nel cielo sotterraneo, 1972). È in questi testi che compaiono per la prima volta i temi della famiglia in crisi e del conflitto padre-figlio.
[2] “ho sentito un bisogno molto forte di troncare con la mia opera precedente. In futuro vorrei che mi si considerasse uno scrittore nuovo. Non ho [più] una gran familiarità col Lars Norén del passato. Se lo incontrate, salutatemelo”. Riportato in: Nylander, L., op. cit., p. 10.
[3] Vedi: Schueler, K.,“Dramatiken fick Norén att fortsätta”, Svenska Dagbladet, 26.11.1982.
[4] Per Olov Enquist lo definì: “metafysiskt trams, bestående av grymhet, skräck, små doser av porr” (stupidaggini metafisiche, consistenti in crudeltà, terrore, piccole dosi di pornografia). Citato in: Nylander, L., op. cit., p. 177.
[5] “Volevo vedere incontri [corsivo mio, n.d.t.] e questo non era possibile con la poesia. La poesia è [fatta di] una sola voce [quella del poeta, n.d.t.]. Io non me la sentivo di riportare i messaggi altrui usando il mio accento, le mie intonazioni – per questo cominciai a scrivere drammi”. Florin, M., “Den nattliga festen. En intervju med Lars Norén”, in: Ord och Bild, nr 1, 1983, p. 18.
[6] Le sue ultime antologie poetiche, Order (Ordine) e Hjärta i hjärta (Cuore a cuore), edite rispettivamente nel 1978 e nel 1980, sono considerate dalla critica i suoi capolavori.
[7] Editi nella raccolta intitolata Tre Skådespel (Bonniers, 1980), i drammi furono ultimati rispettivamente nel settembre ’78, dicembre ’78 e aprile ’79. Solo Orestes fu messo in scena (a Dramaten, nel maggio 1980); Akt utan nåd fu trasmesso alla radio e Modet att döda fu realizzato per la televisione. Il regista Björn Melander mise poi in scena Modet att döda come “coda” al dittico formato da Natten är dagens mor e Kaos är granne med Gud, nel 1983. Per ulteriori informazioni si veda: Florin, M., “Du måste förändra ditt liv. Anteckningar till Lars Noréns dramatik”, BLM 6:1982, p. 391.
[8] “È l’unico modo che ho, l’unica via attraverso la quale posso svincolarmi”. Norén, L., Tre skådespel, Stockholm, Bonniers, 1980, p. 76. Sul carattere “esorcistico” dell’atto di Erik si veda: Nylander, L., op. cit., pp. 289 e segg.
[9] Di cui si dirà dettagliatamente più avanti: vedi III.2.1., pp. 110 e segg.
[10] “Comincio sempre con una stanza che è sovraccarica di conflitti. Devo fare in modo che la stanza si svuoti, ma i personaggi non debbono poterla lasciare [fisicamente, n.d.t.]. C’è solo una via per la quale essi possono uscire, ed è attraverso loro stessi o attraverso la visione che hanno di sé”. Riportato in: Florin, M., “Den nattliga festen”, p. 28. |
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