Capitolo
III III.1.3. Il rapporto con Strindberg e O’Neill Qualunque drammaturgo nato in Svezia dopo il 1900 non può fare a meno di misurarsi - con piglio reverenziale o in chiave polemica, secondo i casi - con l’ombra di August Strindberg. Il padre del teatro svedese moderno[1], che ha assunto nel tempo una statura “mitica” e che ancora oggi è una figura di estrema importanza nell’immaginario colto e popolare svedese, è una vera e propria icona nazionale e resta un punto di riferimento obbligato per chi pratica le arti della scena, proprio come Ingmar Bergman rimane il riferimento imprescindibile per i cineasti svedesi venuti dopo di lui. Lars Norén non costituisce un’eccezione, al contrario: egli ha ammesso ripetutamente di sentirsi in debito nei confronti del suo illustre predecessore, con cui ha dichiarato di avere in comune “storie, eventi, personaggi”[2], oltre a una medesima inclinazione a sperimentare con forme e stili sempre diversi. In particolare, Norén sembra aver assorbito da Strindberg tre elementi: l’ossessione autobiografica, l’attrazione per il milieu famigliare e per i delicati equilibri al suo interno, e la tendenza a mescolare nei suoi drammi realismo e tecniche simbolico-espressioniste: cioè esattamente gli aspetti dell’opera strindberghiana che, sessant’anni prima, avevano affascinato Eugene O’Neill. In effetti, è come se l’influsso che Strindberg esercitò su O’Neill, di cui abbiamo parlato[3], riattraversasse l’Atlantico e - arricchito di tratti americani[4] - raggiungesse Norén con duplice intensità, tanto che il drammaturgo svedese appare come il punto d’arrivo di una linea di riflessione intorno al tema dell’inferno famigliare, che ha in Ibsen, Strindberg e O’Neill i suoi massimi esponenti e che è stata appropriatamente denominata da più commentatori “the Ibsen-Strindberg tradition”[5]. In che consista questa tradizione è presto detto: si tratta sostanzialmente della messa a nudo di quell’istituzione problematica, perturbata ma necessaria che è la famiglia, quel “quadrilatero di nevrosi” in cui “ogni individuo disegna la propria storia in relazione e in opposizione a quelle degli altri”[6], e dove un salotto in apparenza inoffensivo si trasforma con facilità in camera di tortura psicologica. Dödsdansen di Strindberg e Long Day’s Journey into Night di O’Neill possono essere considerati gli esempi più rappresentativi di questa tradizione drammaturgica, caratterizzata da un intreccio esile e da snervanti testa a testa verbali, che rivelano in ultima analisi quanto i personaggi non possano fare a meno l’uno dell’altro. Entrambi i testi hanno significato molto per Norén, che ha continuato a citarli e “riscriverli”[7] lungo tutta la sua carriera, confessando che ciò che più lo attrae in essi è il fatto che “allt utanverk är borttaget så att allt som utspelar sig på scenen blir sin egen verklighet”[8]. La pièce di O’Neill, in particolare, costituisce il modello ispiratore - per situazione, personaggi e struttura drammatica - della maggior parte dei “quartetti” domestici composti da Norén, a cominciare da Natten är dagens mor e Kaos är granne med Gud, di cui andiamo ora a occuparci. [1] Pär Lagerkvist fu probabilmente il primo a sottolineare - nel suo saggio-manifesto “Modern teater. Synpunkter och angrepp” del 1918 - l’importanza rivoluzionaria di Strindberg per il “nuovo corso” che il teatro (non solo svedese) era destinato a intraprendere nel Novecento. Con perspicacia, egli notava: “Strindbergsdramat betyder på alla punkter revolt och förnyelse. Och man kan ej tänka sig annat än att det kommer att få ett revolutionerande inflytande på modern dramatik, så helt river det de gamla grunderna för denna ner och skapar nya i stället, och så klart visar det en väg som leder framåt. [...]Man kan ej gå utomkring honom, skulle man också ha helt andra syften och mål” (La drammaturgia di Strindberg significa in ogni sua parte ribellione e rinnovamento. E ci si può senz’altro immaginare che avrà un influsso rivoluzionario sul teatro moderno, tanto radicalmente essa abbatte le vecchie basi per questo [per il teatro moderno, n.d.t.] e ne costruisce invece di nuove, e tanto chiaramente mostra una via che conduce in avanti. Se anche uno avesse obiettivi e progetti del tutto diversi, non potrebbe [comunque] evitarlo [l’influsso di Strindberg, n.d.t.]. In: Lagerkvist, P., Dramatik, Stockholm, Bonniers, 1946, pp. 29-30; 32.
[2] Vedi: Mori, A.M., “Lars Norén: scrivo il mio male di vivere”, in La Repubblica, 26 aprile 1994. L’intervista fu rilasciata in occasione della messa in scena italiana di Il coraggio di uccidere, rappresentato con successo a Roma al Teatro dell’Orologio, per la regia di Claudio Frosi.
[3] Vedi: II.3., pp. 75 e segg.
[4] Oltre a O’Neill, Edward Albee ebbe un’importanza significativa per Norén, come il drammaturgo stesso ha ammesso. Vedi: Janzon, L., op. cit., p. 27.
[5] Vedi ad es.: Anderman, G.(ed.), New Swedish Plays, Norwich, Norvik Press, 1992, p.15 e Algulin, I.; Olsson, B., Litteraturens historia i Sverige, Stockholm, Norstedts, 1987, p. 552.
[6] Audino, A., “Dalla Svezia tragicamente”, Il Sole 24-Ore, 11.4.1994.
[7] Non c’è spazio in questa sede per illustrare dettagliatamente il concetto di “riscrittura”, di fondamentale importanza nell’estetica modernista e postmoderna. Accenneremo ad esso a proposito di Och ge oss skuggorna (vedi III.3., pp. 181 e segg.), il dramma di Norén che più risente di un’impostazione intertestuale, e che è dunque interpretabile secondo moduli modernisti/postmoderni. Un approccio di questo genere alla produzione di Norén è stato tentato da Lars Nylander, che nella sua monografia afferma: “Noréns författarskap utgör [...] en exponering av och kamp mot den postmoderna epokens grundläggande psykosociala och estetiska tendenser” (La produzione di Norén costituisce un’esposizione di e una battaglia contro le fondamentali tendenze psicosociali ed estetiche dell’epoca postmoderna). Nylander, L., op. cit., p. 22.
[8] “ogni copertura è rimossa, di modo che tutto ciò che ha luogo in scena diventa [non è altro che, n.d.t.] la sua propria verità”. Citato in: Linder, L., “Jag tycker illa om gubben”, Dagens Nyheter, 16.4.1991. |
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