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III III.2.2. “Närmaste en superrealism”: note sullo stile dei drammi Se la stanza in cui Norén chiude i suoi personaggi è identi-ficabile con lo spazio realistico di un salotto o di una cucina borghese, la drammaturgia dell’autore svedese può solo superficialmente essere definita “naturalistica”. L’aggettivo naturalistico resta infatti ancorato all’estetica romanzesca e teatrale di fine Ottocento e all’ideologia positivistica che l’animava: essa distingueva nettamente tra una realtà fenomenica, oggettiva (l’unica davvero rilevante, che l’opera letteraria era tenuta a rispecchiare fedelmente) e una dimen-sione interiore, soggettiva, che solo raramente diventava oggetto di esplorazione letteraria, restando comunque subordinata ai processi del mondo fisico. Al contrario, le pièces di Norén - e, in particolare, Natten e Kaos - intrecciano in maniera complessa, mai semplicemente fotografica, l’universo esteriore e la vita intima dell’inconscio individuale, e danno vita a un’originale combinazione di stili, in cui lo spazio mimetico “momentant kan övergå i ett rent fantasilandskap och den realistiska formen i en strindbergsk drömspelsform”[1]. La regista Su zanne Osten è stata la prima a utilizzare - nel tentativo di descrivere la particolare commistione di elementi realistici e simbolici che caratterizza i drammi di Norén - il termine superrealism (super-realismo), quando ha affermato:
La formula di Osten costituisce una variazione, probabilmente consapevole, dell’attributo con cui Eugene O’Neill aveva definito, nei primi Anni Venti, la tecnica drammaturgica di August Strindberg[3], anch’essa perennemente oscillante fra una rigorosa analisi psicologico-realistica e atmosfere surreali da sogno-incubo. Secondo Lotta Neuhauser:
In Natten är dagens mor si contano ben sei scene di questo genere, disseminate strategicamente nel corso del dramma, che si apre con quattro simbolici rintocchi di campana (una sorta di Requiem per i quattro membri della famiglia?) e con il volo di una colomba che “går ensam över scengolvet och flyger ut genom det bortre fönstret”[5]. Il primo di questi momenti “super-realistici”, che costituiscono una rottura con l’ordinaria referenzialità dell’azione drammatica, ha luogo a metà del Secondo Atto: dopo aver immobilizzato con la forza Martin per sottrargli le chiavi del deposito di liquori, Elin, Georg e David “utför ett dansnummer och sjunger ‘No, no they can’t take that away from me’. George och David svänger och kastar elegant Elin mellan sig”[6]. Poco più avanti, i due fratelli simulano un incontro di boxe, con tanto di guantoni e suono del gong. Le due pantomime sono veri e propri frammenti di sogno, proiezioni dell’inconscio dei personaggi incuneate nell’alternarsi delle azioni e delle repliche reali. È nel Terzo Atto (quando la tensione nella pièce raggiunge le sue punte più alte) che si concentra la maggior parte delle parentesi “di fantasia”, compresa la celebre scena in cui David ferisce la madre al viso con un coltello. Si tratta di un istante di intensa, ambigua drammaticità; i famigliari sono riuniti attorno al tavolo da pranzo e conversano del più e del meno quando David:
Non v’è qui alcun dubbio che abbiamo a che fare con la proiezione scenica di un desiderio inconscio del figlio minore: per una manciata di secondi, il palcoscenico non rappresenta più una cucina d’albergo e personaggi in carne e ossa, bensì l’interno della mente di David e il contorto groviglio delle sue bramosie. La qualità sonnambolica, quasi allucinatoria, di questa ed altre scene è evidenziata da brevi commenti, che l’autore inserisce nelle didascalie: quando, ad esempio, il testo prescrive che David entri nella vasca da bagno con la madre, il resoconto di tale scena vagamente incestuosa è preceduto dalla precisazione che il personaggio “drömmer”[8]. In maniera analoga, la doppia pantomima che - verso la metà del Terzo Atto - David esegue calandosi nei panni di Burt Lancaster e Montgomery Clift si conclude con l’indicazione che il ragazzo “vaknar plötsligt upp, förvirrad, utmattad - ser sig omkring”[9]. Se i vari giochi di ruolo in cui David si esibisce hanno su di lui un effetto destabilizzante e finiscono col turbarlo profondamente, essi gli offrono però anche una possibilità - almeno a livello immaginario - di esprimere quei sentimenti, che gli altri personaggi si sono con mille strategie abituati a insabbiare. Come ha rilevato Lars Nylander: “Inom ramen för det naturalistiska rummets princip och den vardagsrealistiska dialogen fungerar dessa fantasiscener som framträdandet av den sanning som karaktärerna är oförmögna att ge direkt uttryck åt”[10]. È a questa efficace opera di rivelazione, allo “smascheramento” messo in atto nelle scene surreali dei suoi drammi, che Norén si riferisce quando spiega in un’intervista:
Anche il bizzarro epilogo[12], che Norén posiziona fra il Terzo e il Quarto Atto (e non al termine della pièce, come sarebbe ragionevole aspettarsi), è strutturato secondo una logica dichiaratamente onirica, a metà fra l’horror e il grottesco. Al termine del violento corpo a corpo fra Georg e Martin, e dopo che quest’ultimo ha mandato in pezzi il lampadario di cristallo tanto caro alla moglie, la scena subisce una vistosa trasformazione[13]: il naturalistico interno borghese si converte in uno spazio spoglio (potrebbe trattarsi di una specie di rimessa, sebbene l’ambiente sia assolutamente indeterminato) e, dove prima erano collocati il lavello e il piano cottura, scintilla ora la carrozzeria bianca di una Buick. Dentro a questo paesaggio astratto, che non rinvia ad alcun contesto specifico, David e Martin - pistola alla mano come nel più classico b-movie - si confrontano in un duello mortale. È David il primo a premere il grilletto mentre, come in una moviola, sull’orologio a muro compaiono in rapida successione una serie di date: “1956, 1960, 1963, osv. Klockan stannar slutligen vid 1980”[14]. Come e più del finale “reale” della pièce, in cui David indossa gli abiti del padre e si mette a danzare un rituale balletto autocelebrativo[15], l’Epilogo inscena una spietata (ma affatto onirica) resa dei conti tra padre e figlio, dalla quale è il genitore a uscire sconfitto. A quanto sostiene Lars Nylander, il punto di vista in questa scena non può ascriversi al protagonista, David, né a nessun altro personaggio, bensì appartiene esclusivamente a “ett auktoritativt författarjag som från sin position summariskt indikerar dramats [...] dåtid, dess ‘det kommer att ha varit’”[16]. In questo senso, l’autore rientra a pieno titolo fra le “personae” di Natten, un dramma che, nell’intersecarsi di passato e presente, tempo dell’azione e tempo della creazione, arte e vita, rimanda a vari esperimenti postmoderni di cui è ricca la drammaturgia degli ultimi trent’anni, in modo particolare a certe creazioni di Robert Wilson[17]. Il realismo “problematico e sempre pervaso dal sogno”[18] che caratterizza il teatro di Norén si manifesta con forza anche nei dialoghi. In Natten e Kaos le conversazioni dei personaggi si mantengono simultaneamente su due registri, che Nylander ha denominato “tomma respektive fulla tal”[19]. Da un lato, è tutto un susseguirsi di repliche in apparenza superficiali e senza importanza (la “parola vuota” o småprat[20]), che danno il senso di un’ordinaria quotidianità; dall’altro, il dialogo realistico è sempre sul punto di strapparsi, lasciando affiorare la tensione tragica per una situazione che sembra non avere vie d’uscita. Le dinamiche oscure dell’inconscio, tutto il viluppo del “non detto” che i personaggi si portano dentro trovano allora espressione in un linguaggio labirintico, schizofrenico, altamente simbolico (la “parola piena”). Servendosi di un criterio compositivo che è stato paragonato agli intarsi e alle continue sovrapposizioni della tecnica polifonica[21], Norén instaura in queste pièces un originale collage di voci, e riesce a catturare la sottile complessità delle conversazioni reali, con tutte le fenditure, i sottintesi, i doppi sensi che esse recano in sé. Ne sono un esempio, in Natten, varie repliche di David, che con i suoi interventi si sforza di districare la rete di chiacchiere banali che la famiglia fabbrica intorno a sé, smascherando il vuoto emozionale che sotto di esse si nasconde (mentre, in Kaos, il suo “doppio” Ricky reagisce rifugiandosi in un patologico rifiuto di comunicare). Il figlio minore, che da grande vuole fare lo scrittore, dà prova di una versatilità linguistica fuori dal comune e crea nei famigliari effetti di disorientamento:
Attraverso i suoi funambolismi affabulatorii, David è in grado di indurre gli altri personaggi a prestarsi ascolto e a stabilire una comunicazione sincera, come avviene in questo scambio:
Il gioco verbale innescato da David fa sì che la madre ammetta a se stessa la propria angoscia: incalzata dall’eco martellante che il figlio oppone alle sue uscite, Elin lascia improvvisamente cadere la maschera che teneva sul volto e rivela - anche se solo per un breve istante - lo sgomento di cui è vittima. Se, nel suo impulso a spingersi oltre i limiti di un naturalismo convenzionale, il metodo “super-realistico” di Norén appare più radicale e scoperto rispetto alle soluzioni stilistiche impiegate da Eugene O’Neill, l’obiettivo a cui i due drammaturghi tendono nei loro lavori è il medesimo, e cioè - come lo stesso O’Neill formulò felicemente - dar vita a un teatro che sia “an exercise in unmasking, [...] a drama of souls”[24]. In questa loro aspirazione a perforare la “facciata” del reale, illuminando i meccanismi che la reggono, entrambi gli autori hanno riconosciuto in August Strindberg un nume tutelare che, con i suoi kammarspel, traghettò il dramma naturalistico verso l’esplorazione dell’inconscio e aprì la strada per innumerevoli sperimentazioni novecentesche. Una delle descrizioni più suggestive dello stile di Norén, che si potrebbe egregiamente adoperare anche con riferimento alla drammaturgia di Strindberg e O’Neill, è stata proposta da Lars Nylander, che ha definito la sua tecnica:
[1] “può momentaneamente trasformarsi in un puro paesaggio di fantasia, e la forma realistica [sott. può trasformarsi, n.d.t.] in forma ‘di sogno’ alla maniera di Strindberg”. Nylander, L., op. cit., p. 332.
[2] “Ritengo che Lars abbia un rapporto feticistico con la stanza. La fiducia che Lars ha nella stanza naturalistica [cioè, nelle unità classiche di luogo e tempo, n.d.t.] è magica. Penso che egli offra [sott. nei suoi drammi, n.d.t.] una descrizione magnifica e sensuale degli esseri umani. È quasi un super-realismo [corsivo mio, n.d.t.]. Osten, S., “Att göra teater med Lars Norén”, in: BLM, nr 6, 1982, p. 396.
[3] Fu O’Neill a coniare il termine supernaturalism. Vedi: II.3.3., pp. 88 e segg.
[4] “I drammi di Norén sono pieni di episodi che mostrano come le prospettive interiori di un personaggio siano tanto concrete e valide quanto le parole scambiate e le azioni effettivamente portate a termine. Queste brevi scene, o guizzi di tensione, sono come desideri segreti, emozioni [dei singoli personaggi, n.d.t.] che esplodono in immagini visive”. Neuhauser, L., “The Intoxication of Insight: Notes on Lars Norén”, in: Theatre, 22:1, 1990/1991, p. 90.
[5] “attraversa solitaria il palcoscenico e vola fuori dalla finestra sul fondo”. Norén, L., Två skådespel, p. 11. Il volo della colomba e il suono delle campane ci avvertono sin dall’inizio che la pièce si mantiene in bilico tra un piano puramente referenziale e un altro metaforico (i rintocchi segnalano che sono le otto in punto, ma creano anche un senso di oscura inevitabilità, come se una condanna fosse appena stata pronunciata).
[6] “eseguono un numero di danza e cantano ‘No, no non riusciranno a portarmela via’. George e David fanno una giravolta e con eleganza si passano Elin l’uno nelle braccia dell’altro”. Ibid., p. 59.
[7] “si china in avanti sul tavolo, verso sua mamma, afferra il coltello da cucina, glielo mette davanti al viso e incide poi con forza la guancia fin giù verso il collo, così che il sangue sgorga fuori dall’ampia ferita e cola sul vestito e sul tavolo. Un minuto dopo, Elin è di nuovo viva e non è successo nulla [corsivo mio, n.d.t.]”. Ibid., p. 100. Nella messinscena di Björn Melander, David aggrediva la madre stando in piedi alle sue spalle e premendole una mano sulla bocca.
[8] “sogna”. Ibid., p. 102. La scena ha luogo poco dopo che David ha immaginato di ferire la madre al volto, nell’Atto Terzo.
[9] “si risveglia improvvisamente, confuso, spossato - si guarda intorno”. Ibid., p. 91. Si ha davvero l’impressione che, durante gli episodi sopra descritti, i personaggi non siano consapevoli delle azioni che compiono. Le scene “super-realistiche” si configurano come il regno incontrastato dell’inconscio, con tutte le sue contraddizioni e con i “mostri” che esso genera.
[10] “Nei limiti stabiliti dal principio della stanza naturalistica e dall’ordinario dialogo rea-listico, queste scene di fantasia funzionano come la manifestazione di quella verità, che i personaggi non sono in grado di esprimere direttamente”. Nylander, L., op. cit, p. 337.
[11] “tutte le mie pièces implicano una sorta d’intensificazione. Un tempo sulla scena ci si serviva spesso della follia, come un mezzo per far sì [cioè: per rendere plausibile, n.d.t.] che le persone esprimessero cose belle, significative, complesse, affascinanti, e similmente si usava l’alcol, come O’Neill [fa] in Long Day’s Journey, per provocare fratture, [per] costringerli [sott., i personaggi, n.d.t.] a dar voce ai motivi più segreti. Ed è proprio quel che m’interessa nello scrivere per il teatro: indurre le persone a esprimere questi motivi”. Riportato in: ibid., p. 355.
[12] Vedi nota 337, p. 107. Inspiegabilmente, sia questa scena sia il numero di danza del Secondo Atto non compaiono nella traduzione italiana del testo, pubblicata da Ubulibri nel 1995. Assenti sono anche: i quattro rintocchi di campana in apertura del dramma e la simulazione dell’incontro di boxe tra i due fratelli. Queste ed altre incomprensibili mutilazioni rendono il testo di La notte è madre del giorno (che è l’unica traduzione italiana della pièce al momento disponibile) non pienamente attendibile, e fanno sperare che si effettuino quanto prima traduzioni più accurate dell’opera di Norén.
[13] Cfr. anche quanto detto in III.2.1., pp. 113-116.
[14] “il 1956 [il tempo dell’azione del dramma, n.d.t.], il 1960, il 1963 e così via. L’orologio si arresta infine al 1980 [l’anno in cui Norén cominciò a pensare alla scrittura di Natten, che, in virtù del suo carattere distintamente autobiografico, costituì per l’autore una ‘resa dei conti’ con il proprio passato famigliare, n.d.t.]”. Norén, L., Två skådespel, p. 113.
[15] Vedi III.2.1., pp. 115-116.
[16] “un’autorevole identità creativa [quella di Norén, naturalmente, n.d.t.], che, dalla sua posizione [sott., di osservatore onnisciente, a distanza di anni dall’azione in cui è autobiograficamente coinvolto, n.d.t.] indica sommariamente il tempo passato del dramma, il suo ‘sarà stato’”. Nylander, L., op. cit., p. 335.
[17] Robert Wilson (Waco, Texas, 1941), drammaturgo, scenografo, attore e regista ameri-cano, è una delle personalità più affascinanti e poliedriche nel panorama teatrale dell’ultimo trentennio. Ha curato innumerevoli progetti in Europa e negli Stati Uniti, tra i più famosi: The King of Spain (1969); Einstein on the Beach (1976); Death, Destruction and Detroit (1979); la riscrittura e messinscena di testi di Shakespeare, Checov, Ibsen, Virginia Woolf; i musicals The Black Rider (1990) e Time Rocker (1996) e un’applaudita versione del Sogno di Strindberg (1999). Fin dall’inizio della sua carriera, Wilson si è sempre proclamato ostile al naturalismo, e ha opposto ad esso una personalissima maniera di raccontare, che si evidenzia con forza straordinaria nel confronto e nella rilettura (non di rado venata di autobiografismo) di testi classici. Ciò che avvicina Norén a Wilson - come si vedrà anche a proposito di Och ge oss skuggorna - è proprio la capacità di sviluppare nei suoi testi un suggestivo doppio livello di riscrittura e di inserimento autobiografico in un precedente letterario.
[18] Quadri, F., “Padre contro figlio, nemici per la pelle”, La Repubblica, 10 aprile 1994.
[19] “rispettivamente, parola vuota e [parola] piena”. Nylander, L., op. cit, p. 337.
[20] Così la lingua svedese indica il vacuo chiacchiericcio, il parlare del più e del meno, che nei drammi di Norén costituisce solo il livello superficiale del dialogo.
[21] Vedi: Nylander, L., op. cit., p. 343. Tale tecnica compositiva si ritrova in numerosi altri drammi di Norén, ad esempio in Endagsvarelser (Esistenze di un giorno, andato in scena presso lo Staatstheater di Kassel nel marzo 1989 e pubblicato nel 1990) e nell’acclamato Höst och vinter (Autunno e inverno, rappresentato per la prima volta nel 1989 e pubblicato in: Norén, L., Tre borgerliga kvartetter, Stockholm, Bonniers, 1992, pp. 5-105). Höst och vinter, una delle pièces di Norén più amate in tutta Europa, è stato rappresentato in due allestimenti italiani: all’interno del Festival “Città Spettacolo” di Benevento nel settembre 1995, per la regia di Claudio Frosi, e in una messinscena curata da Lorenzo Loris presso il Teatro Out Off di Milano, nel novembre 1997. In entrambe le occasioni si è utilizzata la traduzione del testo di A.P. Sanavio, contenuta in: Norén, L., Tre quartetti, Milano, Ubulibri, 1995, pp. 165-238.
[22] “DAVID: Benché non mi piaccia strappare le ali alla farfalla. Ma non mi va di essere la farfalla a cui vengono staccate le ali. Da questa frase è scivolato fuori il soggetto. ELIN: Cosa stai dicendo? Perché sei così strano?”. Norén, L., Två skådespel, p. 70.
[23] “ELIN: Che cos’hai? DAVID: Che cos’hai? ELIN: Puoi dirlo? DAVID: Puoi dirlo? ELIN: Non hai mica male da qualche parte? DAVID: Non hai mica male da qualche parte? ELIN: Sì, ce l’ho. Diventa sempre peggio. ELIN: Che cos’hai? DAVID: Che cos’hai? ELIN: Ho paura. DAVID: Ho paura. ELIN: Di che cosa hai paura? DAVID: Di che cosa hai paura? ELIN: Ho paura che...oh, quanto sei infantile”. Ibid., pp. 93-94.
[24] “un esercizio di smascheramento, un dramma d’anime”. O’Neill, E., “Memoranda on Masks”, in: Cargill, O. et al. (eds), O’Neill and His Plays. Four Decades of Criticism, New York, New York University Press, 1961, p. 116. In proposito, si veda anche quanto detto nell’Introduzione.
[25] “una specie di doppia o tripla esposizione, in cui il mondo esterno è già sempre un [mondo] interiore. La si potrebbe chiamare una forma di sovranaturalismo, simile a quella di cui si può fare esperienza davanti ai dipinti di paesaggi americani deserti di Edward Hopper; un naturalismo saturo di intense atmosfere d’assenza e d’irrealtà, dove alcune formulazioni e metafore sfondano ciò che Norén ha definito in un’occasione ‘il limbo del realismo’, e lo trasformano in una indefinibile miscela di realtà e fantasia”. Nylander, L., op. cit, pp. 230-231. |
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