Introduzione C’è un’inquadratura particolarmente suggestiva nel film che, nel 1962, Sidney Lumet ha tratto dal capolavoro di Eugene O’Neill Long Day’s Journey Into Night. Siamo nell’Atto Primo: Tyrone e il figlio Jamie sono appena usciti per dedicarsi a una mattinata di giardinaggio; Mary (mirabilmente interpretata da Katharine Hepburn) ed Edmund (Dean Stockwell) sono invece rimasti in salotto a chiacchierare. All’improvviso, una ventata di tensione attraversa la scena: Mary accusa il figlio di non fidarsi di lei, di spiarla (solo più tardi sapremo a cosa si riferiscono i sospetti di Edmund: la madre è una morfinomane) e la conversazione si trasforma rapidamente in disputa. La macchina da presa comincia a girare attorno a Mary, che è in piedi al centro del soggiorno: per tutta la durata del diverbio le si avvolge attorno con una carrellata a 360 gradi, avvicinandosi progressivamente al suo volto come una spirale fino al momento culminante, in cui la donna grida in preda al panico “Stop suspecting me! Please, dear! You hurt me!”[1]. La cinepresa (e di conseguenza l’occhio dello spettatore) cinge letteralmente Mary in una stretta fatale, penetra sotto la maschera di stabilità borghese che ella tenta con disperato accanimento di tenere sul viso e finisce col frantumarla, portando alla luce – per un istante fugace ma straordinariamente intenso – tutta l’angoscia e i sensi di colpa che sotto di essa si nascondono. Come in tanti film di Bergman, il volto (e specialmente il volto femminile) diventa lo schermo sul quale affiora l’inconscio, il palcoscenico su cui l’anima umana viene messa a nudo. Certo il mezzo cinematografico si presta più facilmente di quello teatrale a scandagliare la vita intima dell’inconscio, ad esempio attraverso l’uso dei close-ups, i primi piani dell’attore, irrealizzabili a teatro. Nel caso del film di Lumet, tuttavia, il regista non fa che estrarre dal testo di O’Neill qualcosa che esso già conteneva, e precisamente l’idea dello “smascheramento” come momento chiave dell’emozione drammatica, quello in cui si rendono manifeste “the inner forces motivating the actions and reactions of men and women”, ovvero “those profound hidden conflicts of the mind that the probings of psychology continue to disclose to us”[2]. L’opera di O’Neill, in particolare i suoi “family plays” – un genere drammatico in cui si sono cimentati innumerevoli autrici e autori americani, da T. S. Eliot a Sam Shepard – è tutta percorsa da un impulso a scavare sotto la superficie dei fenomeni, a esplorare “the impelling, inscrutable forces behind life”[3], per cercare di incrinare la barriera di falsità e inganni che abitualmente si interpone nei rapporti fra esseri umani e che cela la loro più intima, spesso brutale natura. La vocazione a smascherare l’ipocrisia e la dissimulazione, che avvolgono le relazioni umane come una pellicola protettiva, è sicuramente un tratto caratteristico della drammaturgia di August Strindberg, il quale in una lettera al suo traduttore tedesco Emil Schering datata 27 marzo 1907 notava a proposito del suo terzo kammarspel, da poco terminato:
L’elegante facciata della dimora famigliare, che dovrebbe occultare lo squallore e le piccole meschinità presenti al suo interno, è attraversata da una crepa e – al pari della casa di Roderick Usher nel racconto di E. A. Poe – è destinata a crollare. “Excercises in unmasking”[5] sono anche i “quartetti famigliari”[6] di Lars Norén, senza dubbio il drammaturgo scandinavo contemporaneo più conosciuto e apprezzato in tutta Europa, rappresentato più volte anche in Italia negli ultimi anni, e che ha sottolineato a più riprese il proprio debito nei confronti sia di Strindberg che di O’Neill. La regista svedese Suzanne Osten, che tra il 1981 e il 1982 collaborò con Norén alla messa in scena di alcune sue pièces[7], ha osservato: “Lars har en moralisk krav: maskerna ska falla. […] Lars texter arbetar tematiskt nära en psykoanalytisk teknik”[8]. Norén stesso fa confessare a uno dei suoi personaggi: “ibland har det funnits speciella tillfällen då jag inte har orkat hålla masken riktigt så bra som jag skulle önska”[9]. Se si aggiunge che la battuta è pronunciata da un’ex-attrice, l’affermazione si colora di una sfumatura metateatrale (oltre che junghiana) e rimanda immediatamente al ritratto di Elizabeth Vogler e della sua crisi esistenziale, che Ingmar Bergman aveva tracciato in Persona. Strindberg, O’Neill, Bergman, Norén. Un filo invisibile unisce questi autori, i quali sono fra l’altro accomunati dal legame che ognuno di loro, in tempi e con modalità differenti, ha intrattenuto con il Kungliga Dramatiska Teater (più noto come Dramaten) di Stoccolma, il teatro stabile più prestigioso della Svezia e uno dei più raffinati palcoscenici mondiali. Long Day’s journey into Night ebbe la sua prima assoluta (come pure gli altri due drammi postumi di O’Neill, Hughie e More Stately Mansions) a Dramaten il 2 febbraio 1956[10] e la messa in scena segnò indelebilmente la storia della sala svedese, tanto che “it is doubtful whether the Royal Dramatic has ever launched a more lauded production”[11]. Nello stesso teatro, la cui sede attuale fu inaugurata nel 1908 con il dramma in versi di Strindberg Mäster Olof, sono stati rappresentati i drammi di Norén Natten är dagens mor e Och ge oss skuggorna, e hanno visto la luce molte delle più geniali regie di Bergman, l’ultima delle quali è andata in scena mentre questo studio veniva completato.[12] Delle affinità drammaturgiche tra O’Neill e Strindberg si è ampiamente occupata la critica o’neilliana, sia documentando l’influsso diretto che l’opera di Strindberg ebbe sull’autore americano a livello tematico e stilistico, sia mettendo in risalto la più impalpabile comunanza spirituale che – per ammissione dello stesso O’Neill – esiste tra i due drammaturghi (e che è evidente in primo luogo nella vera e propria ossessione autobiografica, da cui i lavori di entrambi sono caratterizzati). Una medesima inclinazione autobiografica contraddistingue buona parte della produzione di Lars Norén, in particolare il dittico formato da Natten är dagens mor e Kaos är granne med Gud, che ha in Long Day’s Journey into Night il suo modello ispiratore. Norén, che ai suoi esordi teatrali nei primi anni Ottanta fu salutato come “il nuovo Strindberg svedese”[13], ha in più occasioni dichiarato la propria ammirazione per la pièce di O’Neill, e ha ammesso che “Lång dags färd mot natt är den största pjäs som någonsin skrivits. […] En Dödsdansen i kubik”[14], rendendo così manifeste le due forze che più hanno determinato la sua formazione drammaturgica. Il riferimento a Dödsdansen, che Norén ha anche diretto in una produzione di grande essenzialità portata poi in tour in vari teatri europei[15], è particolarmente significativo: il dramma[16], composto da Strindberg nel 1900, influenzò profondamente anche O’Neill per via della sua struttura circolare e compatta, e dell’atmosfera di soffocante intimità famigliare, che troveremo riproposte in tanta drammaturgia domestica americana. Oltre alla comune predilezione per un teatro “da camera”, in cui il rispetto delle unità aristoteliche di luogo e tempo è funzionale a sottolineare il senso di impasse che congela i personaggi in una stanza chiusa, inducendoli al conflitto, O’Neill e Norén condividono uno stile drammatico affine: su un’ossatura sostanzialmente realistica, essi innestano intarsi simbolici, a volte autentiche parentesi “di sogno”, dentro alle quali trova espressione il lato inconscio, lirico, irrazionale del vivere. Per descrivere questa tecnica drammaturgica, che Strindberg aveva inaugurato in Ett Drömspel (1901), è stato spesso utilizzato il termine “supernaturalismo”, che lo stesso O’Neill coniò proprio in relazione all’intento antifotografico delle ultime opere del Maestro svedese e che – come ha suggerito Edward Albee – compendia una tendenza generale del teatro moderno, indipendentemente dalla sua origine geografica. Secondo Albee:
Vi sono dunque numerosi punti di contatto fra Eugene O’Neill e Lars Norén, sia in termini di soggetti trattati e sensibilità scenica, sia dal punto di vista del linguaggio drammatico, che giustificano un attento esame comparato della loro opera. I due autori si inseriscono in quella che Gunilla Anderman ha denominato “the Ibsen-Strindberg tradition”[18], e che – volendo sintetizzare – consiste in una drammaturgia fondata su estenuanti confrontazioni verbali in interni famigliari piccolo e medio-borghesi. La famiglia mononucleare moderna, col suo ambiente opprimente e i suoi ruoli stereotipati, costituisce per entrambi i drammaturghi il luogo ideale in cui situare l’incontro/scontro tra esseri umani. Essa fornisce, nelle parole di Morris Freedman:
Ho suddiviso la mia ricerca in tre parti: un capitolo introduttivo illustra il “family play” come genere drammatico insolitamente frequentato nel panorama del teatro americano del ‘900, e serve a inserire l’opera di O’Neill nel contesto culturale di cui è un prodotto. Il corpo centrale è dedicato al capolavoro autobiografico di Eugene O’Neill, Long Day’s Journey into Night, del quale si tenta un close reading e un’analisi degli “echi” strindberghiani che percorrono il testo. Una terza e ultima parte si occupa della produzione di Lars Norén come “risposta” di un autore scandinavo contemporaneo all’insigne tradizione creata dai suoi predecessori, ma anche come prova drammaturgica autonoma, contrassegnata da una riflessione di considerevole originalità sulle disfunzioni dei rapporti famigliari all’interno della società del benessere. Si aggiunge un’Appendice, in cui esamino la messa in scena del Lungo viaggio o’neilliano, che Ingmar Bergman diresse a Dramaten nel 1988, anno in cui si celebravano sia il centenario della nascita del drammaturgo americano sia il bicentenario della fondazione del Teatro Reale. Mi è sembrato appropriato concludere questo mio studio con un’analisi, seppur limitata, di una messinscena, poiché in questo modo si riporta la riflessione sul teatro là dove essa è di casa, sulla “O di legno”[20] del palcoscenico. Con l’accenno al tributo bergmaniano, inoltre, la linea invisibile che percorre l’Atlantico nelle due direzioni (da Strindberg a O’Neill, a Norén e Bergman) si chiude nel quadrilatero magico di una “Swedish-American kinship”. [1] “Smettila di sospettarmi! Per favore, caro! Mi fai male!”. O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, London, Jonathan Cape, 1956, p. 41.
[8] “Lars ha un’esigenza morale: le maschere devono cadere. I testi di Lars funzionano, da un punto di vista tematico, in modo simile alla tecnica psicoanalitica”. Osten, S., “Att göra teater med Lars Norén” in: BLM, nr 6, 1982, p. 395.
[9] “ci sono state a volte occasioni particolari, in cui non ce l’ho fatta a tenere la maschera [sul volto, n.d.t.] tanto bene quanto avrei voluto”. Così esclama il personaggio della madre Gunnel nel quartetto Bobby Fischer bor i Pasadena, contenuto in: Norén, L., Tre borgerliga kvartetter, Stockholm, Bonniers, 1992, p. 124.
[10] Per una discussione di questa messinscena e della relazione fra O’Neill e Dramaten si rimanda all’Appendice. Qui basi ricordare che il teatro svedese mostrò sempre un vivo interesse per la drammaturgia americana e ospitò, nel 1961, il debutto mondiale della controversa e unica prova drammaturgica di Djuna Barnes: The Antiphon. Vedi in proposito: Olsson, T., Facts About the Royal Dramatic Theatre, Stockholm, Dramatens Arkiv, 1983.
[11] “si può dubitare che il [Teatro] Reale Drammatico abbia mai sponsorizzato una messa in scena più encomiata”. Törnqvist, E., “Strindberg, O’Neill, Norén: a Swedish-American Triangle” in: The Eugene O’Neill Review, Vol. 15, No. 1, 1991, p. 68.
[12] Ingmar Bergman, che compirà 84 anni nel luglio 2002, ha curato la regia di Spöksonaten di Strindberg (la quarta nella sua lunga carriera), che ha avuto la sua prima il 12 febbraio 2000 a Dramaten, nella Målarsalen (la “Sala dei Pittori”, che per via delle sue piccole dimensioni è particolarmente adatta alla messa in scena dei drammi “da camera”). Bergman è stato anche direttore artistico del teatro di Nybroplan dal 1963 al 1966. Per ulteriori dettagli si veda l’Appendice.
[13] Vedi, ad es.: Åhlund, J., “Han är vår nye Strindberg”, Aftonbladet, 12.6.1983.
[14] “Long Day’s Journey into Night è il più grande dramma mai scritto. Una Danza di morte al cubo”. In un’intervista riportata in: Björksten, I., “Trötta ut publiken”, Svenska Dagbladet, 20.8.1990. L’affermazione ritorna, pressochè identica, nel dramma Och ge oss skuggorna. Vedi: Norén, L., Och ge oss skuggorna, Stockholm, Bonniers, 1991, p. 196.
[15] Lo spettacolo debuttò a Dramaten il 13 novembre 1993 e fu messo in scena a Milano l’anno successivo, nell’ambito del “Festival dei teatri d’Europa” promosso dal Piccolo Teatro di Milano. Fu la prima regia teatrale di cui Norén si occupò, e riscosse un grande successo di critica e pubblico.
[16] Dödsdansen era, fra i drammi di Strindberg, quello che O’Neill preferiva, ed è anche il dramma prediletto da Norén. Vedi: Törnqvist, E., “Strindberg, O’Neill, Norén”, p. 70.
[17] “Ci siamo allontanati dalla tradizione naturalistica, da un facile uso di quella tecnica. La realtà non è così semplice come soleva essere e ho idea che il teatro, il teatro nuovo, avventuroso si preoccuperà di rivalutare la natura della realtà e perciò si discosterà dalla tradizione naturalistica”. L’intervista, datata 1983, è riportata in: Kolin, P. (ed.), Conversations with Edward Albee, Jackson & London, University of Mississippi Press, 1988, p. 25.
[18] Si veda: Anderman, G., New Swedish Plays, Norwich, Norvik Press, 1992, pp. 15-16; 23. Secondo la Anderman, la “tradizione ibseniano-strindberghiana”, in cui è profondamente radicata anche l’opera di Bergman, corrisponde alla perfezione alle convenzioni e alle scelte stilistiche di Dramaten (ibid., p. 16). Il teatro di Stoccolma può dunque a buon diritto essere considerato un referente reale e simbolico attorno a cui s’aggregano i nostri quattro autori.
[19] “lo spettacolo, l’agone di una manciata di forze e identità private, che provengono da un unico centro d’energia, che agiscono l’una sull’altra mutando se stesse nel momento in cui mutano le altre. È il paesaggio famigliare, freudiano e kafkiano, con le sue caustiche intensità [fatte] di relazioni inconsce e nascoste, simbiotiche, parassitiche o magneticamente ripugnanti, che diventa la cornice universale”. Freedman, M., American Drama in Social Context, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1971, p. 27.
[20] Il riferimento è al prologo di Henry V, in cui il teatro è equiparato per metonimia a “this wooden O” (questa O di legno). Shakespeare, W., Enrico V, Milano, Garzanti, 1992, p. 8. |
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